Leggo nella Repubblica di oggi che “violenti combattimenti sono in corso nel suk di Aleppo”, Siria. Già ieri una parte consistente del mercato coperto era stata distrutta dai combattimenti e “secondo quanto riferisce un funzionario del turismo, da sabato scorso sono stati dati alle fiamme oltre 500 negozi storici del centenario mercato coperto”.
Assieme alle vittime civili e militari (tante, troppe) non sono solo i beni economici ad andare in fumo, ma anche il senso stesso di una città e della convivenza civile ad essere distrutti.
In un bel libro su Sarajevo (Sarajevo Exodus of a city, Connectum 2012), Dzevad Karahasan scrive: “a Charshiya (il suk di Sarajevo), gli abitanti di tutti i quartieri si incontrano, comunicano, cooperano, e vivono l’uno vicino all’altro, aiutandosi tutti vicendevolmente, lavorando assieme o l’uno contro l’altro, sostenendosi o imbrogliandosi, dimostrando attraverso quella collaborazione o quel conflitto, la loro elementare umanità e dunque realizzando l’universalità delle loro culture e quella componente che li rende universalmente umani”.
La distruzione del suk di Aleppo è dunque immensamente di più di un enorme carico di sofferenze che nessun popolo merita; è la dissoluzione di relazioni umane che sarà difficile ricostruire.
La comunità internazionale, cinicamente, sta a guardare.
E noi? Noi che abbiamo curiosato nella vita di quel Suk; noi che abbiamo fotografato scambi e commerci che nel mondo occidentale sono spariti da decine di anni, sostituiti dall'anonimato del self service; noi che abbiamo incrociato gli occhi con bambini e adulti sorridenti?
Noi che amiamo quei luoghi, quando tutto questo sarà finito, come potremo tornare là senza abbassare gli occhi per la vergogna di non avere fatto nulla perché l'orrore non continui a ripetersi?