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Vecchio 24-10-2023, 19:15   #16
Massimo
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GIORNO 03 – 16 AGOSTO 2023
Kharkhorin - Orkhon Valley (139 km in moto)



Ha piovuto tutta la notte e piove tuttora. E pure tanto. E’ impossibile mettersi in marcia, così decidiamo di aspettare. Alle 10:00 la situazione non cambia, così proviamo cautamente a partire, perché, diversamente, non riusciremmo ad arrivare in tempo.

L’intenzione originaria era di percorrere la sinistra idrografica del fiume Orkhon, in modo da poter visitare, più o meno a metà strada, il monastero di Tövhön Hiid, che se ne sta appollaiato sulle montagne incastonato sotto una parete rocciosa. La pista, tuttavia, prevede alcuni guadi e tratti in prossimità del greto del fiume: francamento non sappiamo se, con tutta questa pioggia, siano praticabili.

Pertanto accantoniamo prudenzialmente l’idea, per cui il monastero resta dov’è e ci accontentiamo delle foto che circolano in rete, tipo questa.



Col senno del poi, abbiamo fatto bene, data la quantità di fango che abbiamo incontrato su una pista alternativa più facile, che è poi quella che seguono quasi tutti.

Da Kharkhorin ci immettiamo sulla strada asfaltata che, con un ampio giro, dapprima in direzione sud-est e poi decisamente sud ci porterà fino al villaggio di Hužirt. Piove davvero forte e tira vento. Fa freddo. Il traffico è scarso ma le buche sulla strada piene d’acqua sono un bel problema, perché non sono sempre evitabili e non si capisce quanto siano profonde.

A Hužirt smette fortunatamente di piovere; si tratta più che altro di una tregua, perché di lì a poco riprenderà anche se meno intensamente. Ci ripariamo sotto un distributore che ha finito la benzina, mentre cerchiamo di capire dove attacca la pista che abbiamo deciso di percorrere.

La cosa non è affatto semplice, perché stanno costruendo la strada e il tracciato è chiuso. Iniziano i tentativi: guadiamo un fiume e cerchiamo di risalire la massicciata della strada in costruzione, ma siamo costretti a desistere; proviamo allora da un’altra parte, ma nemmeno da qui si passa; terzo tentativo, altro guado, ma niente da fare.

Alla fine entriamo in paese e districandoci per le strade sterrate in mezzo alle baracche di legno, e dopo una buona mezz’ora di tentativi, troviamo il bandolo della matassa intercettando la pista più avanti. Ho detto pista, perché il sedime della nuova strada è ancora intransitabile.

Siamo nella valle dell’Orkhon che è bellissima e verdissima nonostante il tempo inclemente. Davanti a noi un pastore nomade in sella alla sua Shineray Mustang corre spensierato su terreno libero. Evidentemente sa qual’è il terreno migliore su cui guidare. Lo seguiamo sereni e baldanzosi, fino a quando ci accorgiamo che sta andando in una direzione diversa dalla nostra



Peccato, la pacchia è finita. Riprendiamo la pista che alterna tratti ghiaiosi a lunghe e profonde pozze di fango, quello denso e traditore. In una di queste Alberto perde il controllo e si trova per terra, fortunatamente senza conseguenze. La moto tuttavia non gira più bene, è un po’ spompata, ma non capiamo la causa.



Più avanti una mandria di cavalli, governata da un pastore a cavallo, ci attraversa la strada. Decido di chiedere aiuto. Lui gentilmente si ferma, mi affida l’animale porgendomi le redini e si mette a controllare la moto di Alberto. Una regolazione di qua e una di là e la moto torna perfetta: era la leva dell’aria che cadendo si era inceppata.

Restituisco il cavallo, che comunque non aveva nessuna intenzione di farsi tenere da me, e ripartiamo.

In lontananza vediamo due pullman turistici. Sì, avete capito bene due pullman su queste marogne. Avanzano lentissimamente. Sono praticamente quasi sempre fermi e quando si muovono dondolano da ogni parte, fino quasi a cappottarsi a causa del terreno sconnesso.

Arriviamo ad un guado, non molto profondo ma incassato nel terreno. Cerchiamo il punto migliore dove passare proprio nel momento in cui arrivano i pullman, che nella risalita cominciano a perdere aderenza e mettersi di traverso. Francamente non capisco cosa ci facciano in mezzo a tutto questo fango.

Più avanti la pista si alza parecchio rispetto al greto del fiume Orkhon. Qui c’è un punto panoramico dove si fermano tutti. Il colpo d’occhio ci piace. Ora pioviggina soltanto.





La pista da qui in avanti è piuttosto sconnessa e piena di fango, così decidiamo di seguire altre piste più asciutte che tagliano le colline più a monte. Tutto bene, se non fosse che sono veramente inclinate e l’aderenza non è il massimo. Ma almeno evitiamo tratti più malmessi (e parecchio lunghi) dove si fatica a stare diritti per i solchi di melma profonda scavati dai camion: insomma è tutta una pantanaia di notevoli proporzioni e le motorette hanno ormai accumulato una tale crosta che fatichiamo a riconoscerne il colore.

Tutto questo ben di dio, finisce nel villaggio di Bajan-Ôndôr, altro agglomerato di casette di legno in mezzo al nulla. Riprende l’asfalto, ma è solo un’illusione dato che finisce dopo qualche centinaio di metri.

Dobbiamo superare il fiume Orkhon su uno dei rari ponti degni di questo nome. Inizia un maledetto toulé ondulé in direzione nord su terreno duro che ci accompagnerà per una cinquantina di chilometri buoni. Arriviamo quindi nei pressi di un altro ponte, quello che avremo dovuto superare se avessimo percorso la traccia che ci eravamo prefissati. Ora ci dirigiamo decisamente in direzione ovest sempre sulla destra orografica del fiume. La pista diventa a fondo terroso compatto e si prosegue più agevolmente. Ci avviciniamo al fiume e incontriamo cavalli liberi.





Optiamo per la guida libera sull’erba, senza alcuna presenza umana nei paraggi. Il cielo è sempre coperto e carico d’acqua, ma è la Mongolia più pura che potessimo immaginare.











Accolti da un paesaggio bellissimo arriviamo a Ulaan Tsutgalan Waterfall, una scenografica cascata. Qui il fiume Orkhon ha scavato un anfiteatro roccioso da cui precipita una cascata di una ventina di metri. Si tratta di una delle mete più pubblicizzate di tutta la Mongolia e c’è addirittura una zip-line gestita da quattro scappati di casa, che però non proviamo.







C’è da dire che poco prima di giungere alla cascata è possibile, per un sentierino roccioso ma facile, scendere a piedi fino al greto del fiume ed arrivare alla base del vorticoso salto.

Uno scoiattolo ciccione (o una bestia simile) esce dalla sua tana a guardare che succede. Scommetto che qualche aquila l’ha già adocchiato…



Esce un po’ di sole. Ormai siamo in dirittura d’arrivo e ce la prendiamo comoda.





La pista volge ora in direzione sud sempre tra i prati e poco dopo piega in direzione est. Il cielo torna a scurirsi. Arriviamo al campo che avevamo scelto: Khurhree Tour Camp. Ben tenuto con una quindicina di tende, qualche casetta e un fabbricato nuovo come ristorante. I bagni sono pulitissimi e l’acqua è bollente. Le tre figlie della padrona sono sempre con la ramazza in mano e tengono tutto lindo e profumato.



Parcheggiamo le moto a fianco di un Uaz, un monumento a quattro ruote motrici da queste parti. Dove noi viaggiamo a 30 km/h gli Uaz filano ad oltre 90 km/h incuranti di buche, dossi, sabbia e fango.



Siamo a 1800 metri di altitudine e fa freschetto. Ci accendono la stufa che, in men che non si dica, alza la temperatura a livelli insopportabili. Peccato che la legna d’importazione cinese con cui è alimentata (la Mongolia praticamente non ha alberi) abbia una durata di pochi minuti… e così ci ritroviamo al freddo.

Ricarichiamo e saliamo a 35 gradi. Poi scendiamo a 10. E così via.

Alberto è stato nominato fuochista ufficiale, mentre io stendo la biancheria, che si asciuga in un batti baleno.





Siamo costretti a tenere la porta spalancata per stemperare la botta di calore, mentre nel cielo le nuvole lasciano via via spazio al sereno.




Si accendono i colori del tramonto e compare per un attimo un sottile arcobaleno. Ci troviamo in una piana erbosa circondati dalle montagne. Ci sentiamo al sicuro, contenti per la bella giornata trascorsa. Questi spazi così vasti non disorientano, ma accolgono.







Arriva l’ora di cena, che non sarà per nulla memorabile: ci servono una specie di piatto con una montagna di simil-fettuccine con verdura e carne secca stracotta. Per dargli sapore dobbiamo innondarlo di salse dai colori e sapori improbabili, che ci servono in flaconi di plastica tipo quelli del bagnoschiuma. Sopperiamo con arachidi in scatola e ci infiliamo sotto le coperte.

Mi accorgo solo ora di essermi ustionato la faccia. Come è possibile visto che ha piovuto tutto il giorno? Vabbè troveremo una soluzione…





Domani ci sarà bel tempo e non vediamo l’ora di rimetterci in marcia. La strada verso il Gobi è ancora lunga.

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__________________
Massimo Adami
BMW F800GS Adventure
YAMAHA XT600E
Massimo non è in linea   Rispondi quotando
 


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