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Mukkista doc
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23 agosto: Puno - La Paz
La mia sveglia è puntata sulle 5 come quella di tutti gli altri. Proverò a sentirmi meglio per partecipare anch'io all'escursione alle isole degli Uros. Gli Uros è gente che la mattina, prima della prima barca dei turisti, si sveglia, si veste a modino e si trasferisce su isole di totora pressata galleggiante. La totora è una specie di bambù acquatico. E sulle isole flottanti fanno finta di fare tutto quello che facevano fino a pochi decenni fa. C'è chi pesca, chi intreccia foglie secche, c'è la scuola e l'ufficio postale. Ma appena calato il sole non ci sono più gli Uros. Vabbè, antropologicamente parlando rimane una bella escursione, basta assistervi con occhi svezzati e non credere alla favoletta del buon selvaggio.
Ma torniamo in albergo. Sono le 5. Suona la sveglia. Non faccio in tempo a spegnerla che già mi rendo conto di essere a pezzi. Ho ancora la febbre o quantomeno tutti i sintomi. Rinuncio quindi volentieri alla gita sul lago alle 6 del mattino in favore di un paio di ore di sonno in più.
Sono le 8 quando i miei compagni rientrano in albergo. Io sto un po' meglio, o faccio finta. Imbottirmi di antipiretici mi aiuta a far finta.
Comunque, alle 9,30 siamo tutti pronti a partire.
Pare strano, ma a Punto che è una cittadina bella grande non riusciamo a trovare benzina buona. In molte città del perù trovavamo anche la 98 ottani mentre qui al massimo 85. Decidiamo di partire lo stesso contando sui distributori sulla strada verso la Bolivia, abbastanza trafficata. Nisba, con il serbatoio agli sgoccioli, la maggior parte di noi, me compreso è costretto a rabboccare con brodaglia a 80 ottani rimediata in un distributore con la pompa a mano che sembra uscito da un film con John Wayne.
La strada però è meravigliosa, cacchio, dopo essere arrivati fino a qui chi se lo aspettava un nuovo cambio di scenario, questa volta domintato dall'oltreblu del lago titicaca che, non so se per l'altitudine, l'incidenza dei raggi solari, i minerali disciolti nelle acque o la microflora, assume un colore unico. Come unico è il contrasto col giallo intenso dei campi e il bagliore delle montagne della cordigliera boliviana che si innalza dietro all'altra sponda. Che dista decine di km, e anche questo dà l'idea della rarefazione e della purezza dell'aria. Ogni giorno ci viene da pensare: oggi è la tappa più bella.
Arriviamo alla frontiera, mi sembra di ricordare intorno a mezzogiorno. In cima alla salita si staglia l'arco che delimita il confine con la bolivia, nell'usuale fascia di terra di nessuno a tenere a debita distanza due popoli che hanno ben poco da rubarsi, e tutto da condividere, dalla lingua, all'aspetto, alle usanze alimentari, alla miseria. Ma di lì a poco su quest'ultimo aspetto ci ricrederemo.
Davanti a noi l'arco, si è detto. A destra il capannone della dogana e della polizia. A sinistra un paio di ristorantini difronte ai quali una matrona ultrasettantenne funge da cambio "ufficiale" in dogana sopra un banchino di legno che sembra di vendere pannocchie arrostite anzichè maneggiare mazzette da migliaia di dollari.
Iniziamo diligentemente la solita trafila burocratica. Prima a timbrare i passaporti, e ce la sbrighiamo con poco tempo. Poi è la volta dei carnet, e va un po' peggio. Il funzionario è uno ed è terribilmente lento. Davanti a noi 3 o 4 veicoli da sdoganare e poi noi che siamo venti. Per ogni carnet si prende almeno 5 minuti. Aggiungete lo stress per seguire la procedura su ogni carnet, per paura che si dimentichino di qualche timbro...
Nel frattempo mi accorgo che i poliziotti dell'edificio accanto hanno iniziato a fare capannello attorno alle nostre moto e si scambiano commenti e occhiate tutt'altro che disinteressate. Il loro compito sarebbe quello di controllare i bagagli, che non contengano merci la cui esportazione è proibita, e la rispondenza dei dati tra i carnet e i veicoli. Di fatto nè in Ecuador, nell'all'ingresso del Perù avevamo subito la minima perquisizione e il controllo dei numeri di motore e telaio era stato fatto a campione e in maniera molto sbrigativa.
Timbrato l'ultimo carnet in dogana qualcuno del gruppo mi chiama: "il capo della polizia vuole parlare col capo della spedizione." Si capisce subito che mi aspettano grane, e se dentro di me mi monta un nervoso da fame di tre giorni, mi impiongo di rimanere calmo tirando fuori la massima affabilità e paraculaggine di cui sono capace. "buenas dias señor, mucho gusto...si todos italianos, llegamos desde lejos para recorrer su hermoso pais con nuestras motocicletas....lastimas que ya nos despedimos de su patria linda....." I convenevoli non durano poco, c'è modo di parlare di motori e materazzi; ci vuole poco per capire che sta apparecchiando per fare un richiesta "alla quale non si può dire di no".
La richiesta arriva. 100 dollaroni e loro non muoveranno un dito, potremmo avere 100kg di coca nei bagagli e tutte le moto rubate e passeremmo lo stesso la frontiera. COme se esportare cocaina in Bolivia fosse un affare....
100 Dollari? Señor ma lo sa quanto guadagna un professore in italia (come fossimo tutti professori). Lo sa quanto guadagna un poliziotto in italia? E lei lo sa che in perù la polizia non ha i soldi per mettere benzina alle macchine?
Vabbè, 50. No, 80. Alla fine i dollari sono 65 e ci congediamo dal battaglione con abbracci che pare la partita Italia Marocco in Marrakech express.
Adesso abbiamo il problema dei bagagli. Hugo col suo pulmino non ci può seguire in Bolivia, dobbiamo scaricarli tutti e trainarli su carrelli per i 500 metri della terra di nessuno. Faccio rientrare nella mancia di 65 dollari il permesso del capo della polizia per far passare il pulmino fino all'arco che introduce in bolivia.
Sono passate tre ore e siamo sul lato boliviano. La prima cosa che notiamo è la presenza in tutti gli uffici di cartelli che ammoniscono dal pagare "mance" ai funzionari di dogana perchè "la bolivia è onesta". Ed in effetti non ci viene chiesto un centesimo. Solo un poliziotto, a pratiche tutte espletate, mi chiederà di pagargli una birra. Però una sorpresina ce l'abbiamo anche qui. Hugo non si è limitato ad avvicinarsi al confine, ma ha varcato l'arco, immigrando illegalmente in territorio boliviano. Viene invitato minacciosamente all'interno della gendarmeria, dove dopo qualche discussione e un risciacquone ce la caviamo con 10 dollari di multa. Ehm....multa....
Un'altra ora è andata. Purtroppo ci siamo fragati la visita a Copacabana e alla sua cattedrale, ma ormai è tardi, arriveremo comunque col buio e abbiamo giusto il tempo per caricare tutti i bagagli sul pullmann che ci hanno mandato da La Paz e ripartire.
Quello che ci aspetta, e lo dico senza ombra di dubbio, sono i più bei 40 km di tutto il viaggio. La strada è appena asfaltata, le curve si susseguono alte sul titicaca. E questa volta la cordigliera è lì a pochi km a formare una quinta naturale inimmaginabile. Non ci provo nemmeno a spiegarvi la felicità del motociclista in quella mezzora.
Arriviamo a Tiquina, dove le due rive del lago sono separate da uno stretto braccio di non più di 1 km. Si attraversa con delle improbabili chiatte realizzate mettendo assieme delle assi che sembrano recuperate da una ferrovia dismessa. Il pensiero che il pulmann attraverserà il lago con lo stesso mezzo ci rassicura nel caricare le moto. E in effetti la trversata passa tranquilla, anche se non è il caso di lasciare nemmeno per un attimo la propria moto, instabile sul cavalletto.
Ripartiamo che il sole sta tramontando e tutto attorno la terra si tinge dei soliti colori.
Vi avevo detto che ci saremmo ricreduti sulla miseria boliviana. In effetti da quando siamo entrati in bolivia abbiamo notato qualcosa di strano e solo adesso ci rendiamo conto che questa sensazione era data dall'ordine, dalla pulizia, dalle case dignitose, qualcuna anche carina, stile baita sul lago, che vediamo tutto attorno. Sia chiaro, non siamo in svizzera, ma il perù ci era sembrato molto più malmesso. Qualche giorno dopo ci ricrederemo di nuovo, rendendoci conto dell'enorme differenza di condizioni socioeconomiche tra il nord del paese, nei dintorni di La Paz, e il sud.
Si era detto che avremmo fatto buio. Si è fatto tanto buio. Varchiamo il casello di El Alto (eh si, le strade in bolivia si pagano, tutte) con l'illusione di essere arrivati. E invece El Alto, da sobborgo della capitale si è trasformato in una metropoli di più di 2 milioni di abitanti. La strada, adesso a quattro corsie, improvvisamente sparisce in un calvario di lavori non segnalati, con buche di mezzo metro e transenne in mezzo al buio. Ovviamente non mancano i soliti carretti trainati da asini, le biciclette, gli ubriachi e i bambini che attraversano peggio dei gatti, e i vecchi scuolabus louisiana anni 40 con fanalini e rifrangenti originali dell'epoca. Un altro casello introduce alla capitale, finalmente. Stavolta entriamo in un'autostrada vera, con tanto di guard rail e segnaletica, che in dieci minuti ti vomita nel centro di la paz e nel suo - relativo - benessere.
Per fortuna il proprietario dell'hotel prenotato si è offerto per scortarci perchè altrimenti ci saremmo sicuramente persi in un casino paragonabile solo a quello a cui avrei assistito a Bangkok, se solo fossi mai stato a Bangkok.
Siamo in Hotel, felici. Non sento più la febbre, anche se quando la misurerò il termometro continuerà a segnare i 38. Troviamo altri due gruppi di avventure che strabuzzano gli occhi alla notizia che siamo arrivati fino a lì, dall'ecuador, in moto. Tra gli altri ci sono un paio di ragazze moooooolto carine.
E io crollo a letto subito dopo cena. Forse anche per colpa di quello che ho bevuto a 3900 metri di altezza dopo le stracanate dei giorni precedenti.
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BabboAle ver. 2.0
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