Una quarantina di anni fa volevamo cambiare il mondo. Avevamo ereditato dai nostri padri, usciti dalla guerra, la fiducia nell’avvenire e il loro sguardo benevolo sulle nostre utopie. Il mondo sembrava rimpicciolirsi e noi avevamo la sensazione che tutto sarebbe stato possibile, anche forgiarlo ad immagine e somiglianza dei nostri desideri. Eravamo ancora provinciali, ma esploravamo l’esotico, fosse solo a cinquanta chilometri di distanza. Esploravamo anche l’autodeterminazione nella vita, benché questa parola non fosse ancora stata coniata. Sognavamo l’India e gli States, Cuba e il Vietnam, e intanto giravamo le trattorie fuori porta.
Tiziano ne aveva scoperto una spersa nelle Grandi Valli Veronesi, “Dalla Bepa”: si spendeva poco e si mangiava bene. Già arrivarci era un’avventura, soprattutto la notte: si scendeva a Nogara verso Ostiglia e si prendeva una strada bianca, conosciuta da pochi iniziati, che sembrava non finire mai e che, a rischio dell’annegamento nei fossi da cui era protetta, portava a questa vecchia casa colonica. Lì ti accoglieva una vecchia signora, burbera nei modi quanto abile in cucina, che ti faceva accomodare in una sala riscaldata con la stufa. Non ricordo quale fosse il rituale, ma ricordo quanto stessimo bene e la scoperta della delicatezza delle carni del luccio e la dolcezza e la fragranza del pesce gatto fritto.
Poi, i vortici della vita mi allontanarono da Tiziano e “Dalla Bepa”. Fino a qualche settimana fa quando, casualmente, con alcuni amici si torna a parlare della “bella età” e scopriamo che tutti abbiamo frequentato quella trattoria. Franco dice che è ancora aperta; la vecchia signora è mancata, ma la trattoria funziona ancora. La decisione è subitanea: ci si torna assieme ad Ognissanti.
Ieri la giornata era bella e dunque si mette insieme anche un giretto in moto. Umberto e Paola non saranno dei nostri perché la motocicletta è in officina e con loro ci si ritroverà all’una alla trattoria.
Franco ha il compito di guidarci lungo le sue strade visto che è uomo della “Bassa” e svolgerà egregiamente il compito.
Non partiamo tanto presto, ma le foschie ci accompagneranno lungo tutto il percorso. Lasciamo la periferia sud di Verona e dirigiamo a Vigasio. Da lì verso Trevenzuolo. La campagna appare sfatta, come il tavolo dopo un banchetto. I resti delle verdure raccolte tappezzano il terreno, agghindati di guazza in cui si rifrange la pallida luce del sole.
La strada non ha le attrattive dei percorsi collinari e montani, ma è divertente quando presa con il dovuto rispetto. Lunghi rettilinei terminano bruscamente con curve a gomito disegnate sulla mappa catastale e la sfida è mantenere la velocità in questi improvvisi cambi di direzione.
L’aria è satura dei densi odori di stallatico, enfatizzati dall’umidità dell’aria ferma.
Fantasmi scheletrici di grandi “boarie” sfilano grigie intorno a noi; molte costruzioni sono in abbandono oppure crollate, eppure l’insieme conserva una sua magnificenza: la casa padronale o la villa circondata dalle abitazioni dei mezzadri e le barchesse che fanno quadrato intorno alla grande aia, oggi vuota.
Nei campi incontriamo aironi grigi e garzette che spiccano il volo al nostro avvicinarci. Vorrei fotografarli, ma so che se fermassi la moto, si allontanerebbero immediatamente e dunque mi accontento di osservare l’incedere legnoso e sgraziato e l’eleganza del loro battito d’ala.
A Pontepossero sostiamo attratti dal fosso che circonda un ampio parco. Scopriamo trattarsi della “Grimana”, fossato che circonda Villa Grimani discretamente appartata nel verde e fatta erigere dalla nobile famiglia veneziana omonima che diede tre dogi alla Serenissima. Il fosso si getta nel Tione, fiume di resorgiva che nasce nella pianura e nella pianura si confonde con altri corsi d’acqua: Tartaro e Canalbianco.
A Pontepossero il corso d’acqua è bloccato da un mulino, le pale in quiescenza, che dà riparo e godimento ad una piccola colonia di colombi.
Proseguiamo fino a Bonferraro, patria di Antonio Ascari e grande campione di automobilismo prima del figlio Alberto, dove imbocchiamo la strada regionale 10 in direzione di Castel d’Ario, borgo famoso per il risotto e per avere dato i natali ad un altro grande campione: Tazio Nuvolari. Per il risotto è ancora presto e nella casa che fu del pilota non resta traccia di lui e dunque avanti verso Barbassolo e Barbasso.
La strada ora è delimitata da due fossi pieni d’acqua e tracciata con una fucilata. Apriamo il gas in barba a qualsiasi timore di autovelox e il rombo dei motori spaventa aironi, falchetti, ratti e gabbiani, che si levano alti protestando a gran voce.
Giriamo un po’ a vuoto verso Mantova, delusi dall’inurbamento industriale e torniamo sui nostri passi e giù verso il Po. La meta è San Benedetto Po, grosso borgo famoso per l’Abbazia del Polirone.
L'Abbazia fu fondata nel 1007 dal conte Tedaldo di Canossa e, al tempo della lotta per le investiture, fu uno dei principali centri di diffusione della riforma gregoriana nell'Italia settentrionale. Ospitò anche la tomba di Matilde di Canossa, prima che il corpo fosse traslato nella basilica di San Pietro a Roma. Oggi si conservano tre chiostri, il refettorio grande, l'infermeria nuova e la basilica, rifatta da Giulio Romano a partire dal 1540.
La Basilica ci stupisce e il chiostro di San Benedetto ci incanta con la sua armonia; vi passeggiamo a lungo accarezzati da un raggio di sole.
Si è fatto un po’ tardi e gli amici ci aspettano. Riattraversiamo il Po e corriamo lungo il suo argine settentrionale fino ad Ostiglia e Bergantino. Lì ci tuffiamo nelle Grandi Valli Veronesi, un deserto di zolle solcato da canali e canaletti che irreggimentano le acque. Fino al 1860 questi territori erano a paludi perpetue dove “attecchiva sola la carice e dove barbicavano piante salicacee”, ma nello stesso tempo era un luogo “dove pescatori e cacciatori trovavano a loro agio da riempire rete e carnieri”. Dopo la bonifica, trasformati in proletari, si trovarono nel piatto sempre e soltanto polenta.
Non sarà così per noi che, seduti al tavolo alla trattoria “Dalla Bepa”, mangeremo frittura di “pessin”, risotto con la carne di luccio e di anguilla, pesce gatto fritto. Concluderemo con un sorbetto preparato al momento con ghiaccio, vodka e spumante e non travasato da un bottiglione, come capita in tanti posti.
Una passeggiata verso il pioppeto ci favorisce la digestione e poi, a malincuore, si torna verso casa, verso un domani incerto.
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