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Vecchio 18-05-2012, 10:32   #4
Enri&Co
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L’Hamada, lo Uadi e l’Erg.

Questo abbiamo fatto lasciando Midelt di buon’ora diretti a sud, attraverso il Marocco centrale. Siamo entrati nell’Hamada, che tra tutte le forme di deserto, le altre sono l’Erg (sabbia) ed il Serir (ghiaia), è la più ostile a qualsiasi forma di vita.



Il termine, in arabo, significa: “senza vita”. Il terreno è arido, roccioso e ricoperto di pietre aguzze. Si arroventa rapidamente sotto i raggi del sole, e si raffredda altrettanto velocemente al sopraggiungere della sera.



Eppure, nonostante queste caratteristiche terribili, viene scavato ed eroso facilmente dal vento e dall’acqua, così dove scorre o scorreva un fiume si forma o si è formato uno Uadi che taglia la superficie piatta e arida fino a formare canyon profondi.



Che in questa regione del paese raccolgono l’acqua del disgelo proveniente dalle cime più alte dando vita a oasi rigogliose e lussureggianti.



Attorno al letto del torrente, le palme, gli ulivi, gli aranci crescono abbondanti. Il poco terreno, strappato alle pietre, viene coltivato. Gli insediamenti umani si accalcano nelle piccole porzioni di territorio rese vitali dallo scorrere della scarsa acqua, fino al confine immaginario dove l’acqua stessa non riesce ad andare oltre e le pietre, il sole e l’arsura hanno di nuovo il sopravvento.



Continuiamo ad attraversare l’hamada, costeggiando lo uadi della valle dello Ziz, fino a Rissani dove ci fermiamo a pranzo: omelette berbera, un miscuglio di uova strapazzate, verdure, pomodori e olive, cucinate nella solita tajigine, tutt’intorno ronzano acchiappa turisti che passano avanti e indietro sbirciandoci con la coda dell’occhio. Ci rendiamo conto di essere in qualche modo fuori luogo, di averli perlomeno disorientati se non sorpresi. Che ci fanno due occidentali a sedere in un bar ristorante abbastanza fatiscente, sudicio quanto basta, a mangiare assieme ad arabi e berberi che fumano, bevono caffè e discutono tra loro. Uno, tra i tanti, trova il coraggio di avvicinarci, ci chiede dove siamo diretti, se abbiamo bisogno di un alloggio o se vogliamo fare un giro nell’erg. Siamo a posto gli rispondiamo, appena finito di mangiare ci dirigeremo verso il deserto. Non ci serve nulla. Sappiamo esattamente dove vogliamo andare. Proprio verso quelle colline dorate laggiù in fondo, le dune dell’Erg Chebbi.



Regalo un pacchetto di sigarette ad un uomo che ci si è avvicinato timidamente. Un uomo con gli occhi da giovane, ma con la pelle da vecchio. Un uomo forte ma con addosso la stanchezza di chi lavora duro da cento anni. Un pacchetto di sigarette, quello che avevo in mano. In quegli istanti mentre ci guardavamo negli occhi non mi è venuto in mente altro. Che Allah mi perdoni. Ancora adesso il ricordo di non aver fatto di più mi rattrista. Eppure devo aver fatto molto perché lui si posa la mano destra sul petto e china appena la testa in segno di saluto. E tutti gli altri dai tavoli attorno ci salutano sventolando le mani e ringraziandoci a voce alta, mentre saliamo sulle moto e partiamo. Il deserto ci aspetta. Il deserto, con le sue dune giallo, oro e il sole che le accarezza.



Il deserto. Che parola grossa, avremo fatto si e no qualche centinaio di metri prima che le ruote affondassero e le moto, che probabilmente già sapevano come sarebbe andata a finire, si appoggiassero indifferenti sul para coppa e ci dicessero: -e adesso?-



Riportare sul terreno più compatto la moto di Marco è stata una faticaccia. Una vera faticaccia, questo il prezzo da pagare per voler provare l’emozione di sentirsi, per un istante, come i campioni di qualche blasonato rally africano. Il sudore mi colava dalla schiena, lungo le gambe, fin dentro gli stivali, ma resistere alla tentazione di lanciarsi in quel mare di sabbia soffice e vellutata sarebbe stato impossibile..



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