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Vecchio 18-10-2023, 10:18   #1
Massimo
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predefinito MONGOLIA CON MOTO A NOLEGGIO (report)



PREMESSA

La Mongolia evoca nell’immaginario collettivo, alimentato dalla ricca documentazione disponibile, l’idea di spazi sconfinati, isolati e scarsamente popolati ed è un paese che ben identifica forse il più tipico paesaggio asiatico, costituito da infinite praterie e steppe semidesertiche.

Semplicemente guardando i vari documentari naturalistici, periodicamente proposti sul piccolo schermo, o ricercando il materiale disponibile su internet, il viaggiatore che desidera avventurarsi da queste parti, alla ricerca di ambienti sempre più diversi e lontani dal proprio habitat domestico, si può rendere facilmente conto di ciò che lo attende.

Questo non significa però che un viaggio in Mongolia sia uguale (e, oserei dire, scontato) indistintamente per tutti: la differenza, a parità di paesaggi e itinerario, la fa infatti il mezzo utilizzato.

Quando leggo di turisti che raccontano le proprie avventure mongole, ma che si sono serviti di tour organizzati, con pulmini, jeep, autisti e guide, ed usano frasi del tipo “abbiamo visto questo… siamo andati in tale o talaltro posto” e via dicendo, mi viene da sorridere perché in realtà dovrebbero dire “ci hanno portato, ci hanno fatto vedere”.

Un conto, infatti, è farsi scarrozzare in comodità da un luogo all’altro, un conto è andarci con un mezzo proprio, guidandolo; e ciò a prescindere dallo strumento utilizzato, sia esso auto o moto.

E ciò per il semplice motivo che, soltanto guidando direttamente, e meglio ancora in autonomia, ci si rende compiutamente conto dell’ambiente in cui ci si trova. E’ una sorta di immersione totale, fatta anche da difficoltà, fatica e determinazione. Solo così, a mio parere, la Mongolia ti entra dentro e soprattutto ti resta dentro, come in ogni viaggio dovrebbe accadere.

Intendiamoci, non si tratta di compiere alcuna impresa o avventura straordinaria, ma semplicemente di vivere un’esperienza lontana (anche geograficamente) dai luoghi comuni, ma ancor più lontana dalla presenza umana, dato che, al di fuori della capitale, non si incontra praticamente quasi nessuno. E questo, ai giorni nostri, è ormai un raro privilegio.

Una persona che stimo molto, giornalista, viaggiatore e motociclista, ha scritto che gli avventurieri non esistono più, perché non ci sono più luoghi sulla terra dove vivere avventure. Esistono (e siamo) solo turisti alla fine della fiera. Se ci pensate è vero, terribilmente vero; per cui anche la Mongolia è una terra turistica, lontana sì, ma pur sempre turistica.

Con questo non voglio dire che un viaggio in moto, in autonomia e senza mezzi di supporto, sia alla portata di tutti. Tuttavia la portata si misura soprattutto in termini psicologici o - se volete - mentali. Non c’è nulla di difficile (a parte qualche raro guado profondo o salita ripida su terreno infido), ma occorre mettere in conto le conseguenze dell’isolamento in cui ci si trova immersi, soprattutto se ci si avventura nel grande deserto del Gobi.

Una caduta o un guasto – ripeto se si viaggia in due (come abbiamo fatto noi) e senza mezzi di supporto – può diventare una situazione parecchio complicata da gestire. Cercare aiuto, su alcune tratte totalmente isolate, può richiedere indefinite ore di guida su piste in mezzo al nulla più assoluto. E chi resta, magari infortunato o con la moto in panne, deve gestire tutto questo tempo in completa solitudine, sperando che gli aiuti arrivino prima che faccia buio, cosa assai difficile da realizzare.

Con il senno del poi, è consigliabile essere in quattro, così in caso di emergenza, due partono e due restano; non di più perché la gestione delle emozioni e delle difficoltà di ciascuno – ripeto sempre senza mezzi di supporto – può risultare non sempre agevole. C’è poi chi ha la capacità, anche mentale, di muoversi completamente solo, ma si tratta di superuomini evoluti che posso solo ammirare, ma non imitare.

E sfatiamo la leggenda metropolitana che, in caso di problemi, si può chiedere aiuto a nomadi mongoli, sparsi lungo il percorso, che sono sempre ospitali e disponibili. Questo può essere vero solo dove ci sono i nomadi, ovvero per le prime centinaia di chilometri a sud di Ulan Bator, dove esistono pascoli verdissimi con pecore, mucche, cavalli e yak; ma ciò non accade nel deserto, dove i nomadi non ci sono perché non hanno alcun motivo per esserci.

Per cui, in caso di necessità, nel Gobi duro e puro bisogna arrangiarsi.

Altro discorso invece per chi partecipa a tour motociclistici organizzati, con tutta l’assistenza necessaria: in tal caso la cosa è veramente alla portata di tutti perché ci sono altri che pensano a tutto. Personalmente non sono attratto da esperienze di tal fatta e quindi mi astengo da ogni commento.

Ciò detto, perché ci è venuta in mente la Mongolia?

Alberto ed io stavamo ipotizzando un giretto semplice e avevamo messo gli occhi sul Laos o il Vietnam, poi, quasi per caso, uno dei due ha buttato lì la parola magica: Mongolia. E ora siamo qua a raccontarvela.

E devo dire che abbiamo fatto bene e fareste bene anche voi ad anticipare il viaggio, se vi frulla l’idea di farlo. Questo perché, pian piano, l’asfalto sta prendendo piede un po’ ovunque. Credo che nel giro di pochi anni, da quel che abbiamo visto e intuito, il trend sia quello di asfaltare le piste principali per renderle comode a misura di turista comodo. Chi ci ha preceduto una decina di anni fa, ha raccontato di piste che ora sono strade asfaltate. Per cui affrettatevi, prima che la Mongolia diventi Disneyland.

MONGOLIA: UN PO’ DI GEOGRAFIA

Da quel che ho letto in giro, ho l’impressione che la buona parte dei viaggiatori sappia gran poco della Mongolia, per cui vi do alcune elementari informazioni, giusto per collocarla con maggior cognizione sul nostro planisfero.

Innanzitutto ci troviamo nell’Asia orientale, una delle macroregioni dell'Asia, nel bel mezzo del confine tra la Russia e la Cina, gli unici due paesi confinanti.



Le dimensioni non sono certo trascurabili: la Mongolia misura in larghezza (da ovest a est) 2400 km e in lunghezza (da nord a sud) 1300 km; il tutto per la bellezza di un milione e mezzo di chilometri quadrati. In pratica è grande cinque volte l’Italia con una popolazione inferiore a quella della Toscana. Peraltro, diversamente da quel che si può pensare, la Mongolia è parecchio più piccola del Kazakistan.

Diciamo comunque che i 3,3 milioni di mongoli sono belli diradati: escluso il milione e mezzo che abita nella capitale, il resto ha a disposizione spazi davvero sconfinati, per cui mediamente un chilometro quadrato è occupato da meno di due abitanti. Se vuoi proprio litigare con qualcuno, devi andartelo a cercare!

Le principali aree di d’interesse sono sostanzialmente due: i Monti Altaj e il deserto del Gobi.

L’Altaj è un complesso sistema montuoso dell'Asia che si estende per circa 2000 km e che occupa, per quanto riguarda la Mongolia, la zona più occidentale. La cima più alta, il monte Belucha (4506 m) si trova però in territorio russo.

Il Gobi è invece un deserto vastissimo (un milione e trecento mila chilometri quadrati), che occupa anche parte della Cina settentrionale. L’escursione termica nel corso dell’anno raggiunge in alcune zone anche 80 gradi e in inverno nevica pure. E’ sostanzialmente una zona arida, con terreno sabbioso-ghiaioso compatto disseminato di rari arbusti bassi, in cui le ruote affondano facilmente. Provenendo da nord, e dunque da Ulan Bator, si avverte il suo inizio quando le verdissime praterie lasciano progressivamente spazio a questa terra arida e inospitale e quando spariscono le mandrie di cavalli e mucche e si cominciano ad incontrare solo cammelli.

Le dune di sabbia sono principalmente circoscritte, a quanto mi risulta, ad una parte ridotta (chiamata Khongoryn Els) della sterminata superficie desertica del Gobi: una distesa lunga 80 km per 5 km di larghezza e 100 metri di altezza. Naturalmente sono l’area più gettonata turisticamente e sono state anche il punto topico del nostro viaggio.

Altaj e Gobi richiedono due viaggi a parte, date le distanze. Noi abbiamo optato per il deserto, ma da quel che abbiamo potuto intuire l’Altaj, seppur completamente diverso, è una meta assolutamente meritevole di essere visitata, anche se, per logistica e quant’altro, è meno agevole da organizzare.

Al di là dell’inflazionato e banale slogan turistico per eccellenza (“Mongolia, la terra del cielo blu”… come se nel resto del mondo fosse di un altro colore), da queste parti un salto prima o dopo bisognava farlo e, con il senno del poi, posso dire che il cielo (quando è limpido) è effettivamente blu, ma è soprattutto alla notte che lascia sbalorditi, quando si accende di stelle che dalle nostre parti ci sogniamo di vedere.

IL PERCORSO

Il nostro viaggio ha seguito il percorso classico ad anello con partenza e arrivo a Ulan Bator, la capitale del paese. Abbiamo scelto il senso anti orario, per poter affrontare subito la parte più impegnativa e tenerci per ultima, come rientro, la parte più noiosa e monotona, ma anche più agevole in quanto asfaltata, in caso fossimo in ritardo.

Qui vedete il percorso seguito e la sua collocazione nell’area dell’Asia Orientale.



E qui vedete il percorso più in dettaglio, sia su mappa che su satellite.





Complessivamente abbiamo percorso 2263 km, di cui 943 km sterrati (42%). L’intenzione originaria prevedeva di rientrare in tre tappe con due deviazioni sterrate, ma, veramente provati dalla stanchezza (e già appagati da ciò che avevamo visto), abbiamo deciso di accorciarla in due tappe solo asfaltate.

Si tratta, in buona sostanza, del percorso che affrontano praticamente quasi tutti i tour organizzati, soprattutto quelli automobilistici, perché tocca i luoghi di maggior interesse naturalistico e paesaggistico. Una sorta di “gita delle pentole”, tipo quelle con cui, negli anni ottanta, ti portavano in pulmann da Padre Pio, compreso pranzo offerto e dimostrazione non vincolante di batterie di pentole in acciaio inox 18/10 appunto.

A parte le pentole, è probabilmente il miglior giro da fare per la prima visita del paese e se lo fanno tutti ci sarà pure una ragione. Quindi nulla di così straordinario. Naturalmente nulla vieta di arricchirlo con varianti o deviazioni in zone ancor più remote, ma l’impressione che abbiamo avuto è che, fuori dal circuito classico, ci sia ben poco da vedere e soprattutto che non vada quasi nessuno.

Alla fine, come detto all’inizio, abbiamo fatto i turisti in moto, anche perché - stringi stringi - altro non siamo che turisti.

Per quanto riguarda lo sterro, dico subito che assai raramente si svolge su strade bianche come siamo abituati dalle nostre parti, ossia su un percorso ben delimitato e individuabile. Si tratta invece prevalentemente di piste, che sono cosa assai diversa.

Immaginatevi di avere un terreno libero e di poter passare dove volete (o dove vi viene più comodo) per andare da A a B, e che, dai e dai, a forza di passare si formino dei segni sul terreno. Ebbene, a lungo andare vengono a crearsi delle tracce più o meno parallele che possono occupare in larghezza anche un chilometro. Ne risulta una specie di autostrada immaginaria con un numero indefinito di corsie fatte di segni più o meno marcati: queste sono le piste.

La faccenda però non è così scontata, perché, in realtà, presa una di queste corsie (o tracce), non è detto che sia conveniente seguirla per tutta la sua lunghezza da A a B, a causa di fango, guadi, sabbia, ghiaione o soprattutto toulé ondulé che in sequenza si parano davanti. Pertanto è un continuo passaggio da una pista all’altra alla ricerca del fondo più agevole o, laddove non è possibile, è un continuo passaggio fuori pista, ossia su terreno libero anche se magari più sabbioso.

A forza di passare (e di scegliere il percorso migliore) il numero di piste aumenta di volta in volta, perché se ne creano di nuove ad ogni passaggio.

Va poi precisato che alcune di queste tracce parallele prendono, a tradimento, anche direzioni diverse, per cui occorre necessariamente disporre di un buon navigatore e una buona cartografia, ma soprattutto saperli usare bene, perché basta un attimo per sbagliare pista e trovarsi dove magari non si riesce più proseguire o distanti chilometri dalla direzione voluta.

Il terreno che abbiamo incontrato lungo il percorso è generalmente facile (nel senso che non richiede particolari capacità tecniche di guida e dunque risulta aprioristicamente alla portata di tutti), ma risulta faticoso, talvolta parecchio faticoso, per via del già citato toulé ondulé che prevale di gran lunga in termini quantitativi sul chilometraggio da percorrere.

Credo che tutti sappiano cosa è il toulé ondulé. Per chi non lo sapesse faccio un esempio banale: avete presente le onduline che vendono nei centri commerciali per coprire le verande? Ecco, immaginatevi di metterle in senso trasversale sulla strada e di guidarci sopra. Hai voglia a teorizzare sulla velocità di galleggiamento o di risonanza, ossia su quella velocità (di volta in volta variabile a seconda della moto, della distanza e della profondità degli avvallamenti); in pratica è tutta una vibrazione ritmica, fastidiosa e faticosa da gestire.

Il toulé ondulé si forma per l’azione del vento combinata al passaggio dei vari mezzi a quattro ruote che sfrecciano a velocità nemmeno immaginabili per le moto.

Abbiamo percorso anche 150 km filati di toulé ondulé in una sola giornata (tipo, per rendere l’idea, da Verona a Bolzano sulle onduline di Leroy Merlin) e ne siamo usciti veramente stravolti dalla fatica.

Abbiamo trovato toulé ondulé sabbioso, ghiaioso e di terreno duro… insomma per tutti i gusti. Ci sono poi brevi tratti su sabbia e altri su ghiaia smossa, talvolta in salita. Si incontrano anche solchi longitudinali, più o meno profondi, di sabbia, ghiaia e fango, come pure guadi e ancora fango.

Ripeto nulla di difficile, nemmeno per un inetto come me. Il terreno migliore, dove ci si sente veramente liberi, sono comunque i prati sconfinati, magari ricoperti di fiori, dove si guida ad cazzum, seguendo il proprio istinto: il fondo è soffice, le ruote tengono bene senza il rischio di scivolare… basta solo evitare qualche buca o sasso sporgente.

Guidare liberi sui prati dalle nostre parti è cosa assai rara (e credo pure vietata); in Mongolia invece potete togliervi la voglia senza preoccupazioni.

Comunque se mi dite Mongolia, la prima cosa che mi viene in mente è toulé ondulé. Credo di aver reso l’idea.

Dico anche che le tappe sono pressoché obbligate, nel senso che arrivano sempre in posti dove si trova da dormire. Scombinando il percorso può risultare difficile trovare sistemazioni. In ogni caso le tappe (a parte quelle in prevalenza asfaltate) non superano mai i 130-150 km giornalieri e sono dunque fattibili anche per i meno resistenti.

Come dicevo, abbiamo dovuto modificare parzialmente il percorso per la difficile o incerta transitabilità di alcuni tratti. Inoltre negli ultimi giorni l’abbiamo accorciato.

Con esclusione dei giorni necessari per arrivare e partire, per ambientarci e per fare il giro di test, abbiamo dunque impiegato complessivamente 11 giorni. Come vedremo, più avanti, se avessimo fatto tutto il giro programmato, avremo impiegato un giorno in più, cioè 12 giorni. Questi sono i tempi minimi necessari se si vuole arrivare fino alle dune di Konghorin Els, nel Gobi. In minor tempo, a mio parere, non è proprio possibile.

Per rendere meglio l’idea, nella mappa qui sotto è evidenziato in blu il tracciato effettivamente seguito, e in giallo le parti saltate o bypassate.



Qui sotto il grafico dell’elevazione. La quota minima è stata di 1000 metri, mentre quella massima è stata di 2400 metri. L’altitudine media è di 1500 metri, ma buona parte del percorso si mantiene al di sotto.



In altri termini il terreno è prevalentemente piatto e le salite sono sempre moderate. La Mongolia, e il Gobi soprattutto, sono sostanzialmente pianura.

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Massimo Adami
BMW F800GS Adventure
YAMAHA XT600E

Ultima modifica di Massimo; 19-10-2023 a 17:05
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