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Vecchio 23-11-2005, 18:54   #1
Huey
Alex da Tai doc
 
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Registrato dal: 09 Jun 2005
ubicazione: RIVAMAOR
Wink -LUNGO- Albania-Bosnia-Rep.Srbska - racconto

“Zadar, Zadar”. Una richiamo ripetuto mi sveglia e con uno scatto mi ritrovo fuori dal sacco a pelo. Faccio tardi, siamo arrivati ed ancora devo piegare materassino e sacco a pelo. Poi penso che la nave deve comunque ancora attraccare e quindi ho tempo. Il ponte si abbassa su una Zara che dorme ancora poco prima delle sei di mattina. L’aria è fresca. Il cielo ancora stellato.
Dobbiamo arrivare a Sarajevo. Sarajevo, città che in ordine cronologico ha subito l’ultimo assedio in stile medievale che la storia ricordi una volta era parte dello stesso Stato sul quale adesso accendiamo le moto. Partiamo e grazie al gps usciamo dal porto, abbandoniamo subito la costa dove gli ultimi turisti tra qualche ora affolleranno le spiagge. Lasciamo la costa per addentrarci nella storia recente. La storia che per anni ha reso irrealizzabile questo viaggio. Semplice l’idea di partire da Trieste ed arrivare in Grecia lungo la costa, idea quasi banale che mi porto dietro da quando andavo a scuola. Un sogno che accendeva fantasie di viaggi magari a bordo di un due cavalli con la chitarra suonata dal sedile posteriore e canzoni cantate a squarciagola uscire dalla cappotte aperta. Non si poteva fare quando il sogno era giornaliero. L’Albania era completamente inaccessibile. Le sue coste sconosciute agli stranieri. Non si poteva fare dopo perché l’apertura dell’Albania coincise più o meno con lo scoppio, nel 1992, della guerra nei Balcani nella quale l’uomo si esercitò in orrori che sembravano dimenticati, orrori medievali come l’assedio di Sarajevo, orrori vandalici come il bombardamento di Dubrovnik e Mostar e orrori nazisti come le pulizie etniche che “ripulirono” città come Vukovar e Gorazde riempiendo i campi di pannocchie di fosse comuni.
Partiamo allora, andiamo a realizzare il sogno di arrivare in Grecia dalla Jugoslavia, pardon, dalla Croazia. Ma il viaggio appena iniziato, già pochi chilometri fuori Zara diventa un viaggio nella storia recente. Su di un asfalto che diventerà sempre più rovinato fino quasi ad essere assente in Albania, ecco la testimonianza del macello balcanico. L’inconfondibile segno dello scoppio di una granata. Un buco centrale piuttosto rotondo circondato da raggi che partono dal centro e si allargano verso l’esterno. Non può essere confuso, impareremo presto a riconoscerli anche da lontano. Anche se ricoperti i raggi restano e segnano immancabilmente il punto. Ed allora il viaggio non può essere solo il collegamento tra due luoghi ma diventa un viaggio nella storia, ed il territorio attraversato, il suo museo.
Andiamo verso l’alba in direzione Benkovac e poi Knin. Il cielo ci regala il perfetto contorno delle montagne ad est, sempre più chiaro, poi rosa ed infine il sole a scaldarci un po’ e ad illuminare i campi circostanti. Passiamo dei paesini di poche case. Tutte uguali. Solo le mura esterne restano in piedi e mentre questi dieci anni passati hanno fatto si che le piante si impadronissero degli interni, sopra le finestre distrutte ancora si vede il nero dell’incendio che le ha finite. Prima delle otto siamo già a Knin. Territorio Croato ma paese a maggioranza Serba. Le case della periferia lo dimostrano. Invece di dirigerci a nord est come programmato proseguiamo verso sud est, verso la Bosnia e verso Mostar. Arriviamo al confine di Gorica alle 11. Di sicuro siamo entrati in Bosnia. Lo dimostrano i controlli passati, le divise della polizia di frontiera e le targhe delle macchine. Ma allora perché proseguendo il viaggio verso Medjugorie e poi verso Mostar continuiamo a vedere bandiere croate? Ma certo, la Bosnia nei piani della Croazia e della Serbia non doveva neanche esistere. Esiste grazie alla politica internazionale e grazie al fatto che qualcuno si è accorto che oltre e ortodossi e cattolici esistevano anche i mussulmani e che questi, in maggior parte abitavano e reclamavano il territorio che ora si chiama appunto Bosnia. La Bosnia nella quale ora viaggiamo non è sovrana. A sud, nell’Herzegovina è praticamente Croazia mentre a nord nell’auto proclamata Repubblica Serbska è a tutti gli effetti Serbia. Una nazione tre popoli, un popolo tre nazioni. Separati da invisibili frontiere ma da evidentissimi segni e separati da indelebili ricordi di violenze reciproche, vicino contro vicino. Lasciamo Medjugorie dove un bandierone croato copre metà facciata della piccola chiesa oppressa dai turisti e immersa tra immancabili negozietti di oggetti religiosi. Lasciamo l’altopiano e scendiamo a Mostar che improvvisamente ci appare con la sua parte ovest. Sull’ultimo tornante ci fermiamo ad osservarla. La montagna dalla quale le batterie croate hanno distrutto il famoso ponte ora accoglie una enorme croce che incombe sulla parte est della città, quella mussulmana. Un segno di fede? Una minaccia? Non lo sappiamo, vediamo però che a Mostar si incontrano i primi condomini sventrati dalle granate, segnati dai colpi e man mano che ci si avvicina al famoso ponte la situazione peggiora fino a parcheggiare le moto a ridosso della vecchia moschea vicina al fiume sul quale il ponte vecchio collegava la parte ovest a quella est. Adesso il ponte è in via di ricostruzione ed una passerella permette di collegare le due sponde. Il collegamento è virtuale. Ancora oggi accade che ci si spari da una parte all’altra della città. Su di un ponte a nord di Stari Most attraversiamo la Neretva ed entriamo nella Bosnia Mussulmana, Ci lasciamo Mostar alle spalle e proseguiamo verso Sarajevo percorrendo una bellissima gola. La strada scorre veloce tra montagne sempre più alte fino a diventare una serie di larghi tornanti che ci portano al passo dal quale si scende nella piana di Sarajevo. Sarajevo. Un nome pesante nella mia coscienza e nella coscienza di chiunque dal 1992 al 1995 abbia guardato i reportage che arrivavano da Sarajevo con un senso di impotenza opprimente. Sarajevo ci accoglie con il suo traffico da città moderna in una sniper alley , la via dei cecchini, che è irriconoscibile grazie alla vita ripresa frenetica, intensa, moderna e spero, anche multietnica come era prima della guerra. Anche il fantasma del quotidiano Oslobodjenje, una torre degli ascensori rimasta inspiegabilmente in piedi tra le macerie dei due palazzi che la affiancavano, è in via di ricostruzione. Simbolo involontario insieme alla biblioteca incendiata, al mercato bombardato ed alla quasi totalità dei palazzi crivellati o addirittura sventrati dalle granate, questo quotidiano non cessò mai di essere pubblicato ed i suoi redattori ne continuarono la pubblicazione nei sotterranei dopo che un carro serbo per ben due giorni, si piazzò sul prato i fianco e lo bersaglio fino a raderlo al suolo. Ci dirigiamo verso il centro, passiamo l’Holiday Inn , aggiriamo i resti della bellissima biblioteca ed entriamo a Baščaršija, il vecchio quartiere arabo fatto di botteghe, e casette basse. Una grande moschea, una sinagoga, una cattedrale cattolica ed una chiesa ortodossa nel raggio di trecento metri. Non esiste forse altra città al mondo dove questo è possibile. A Sarajevo si, e voglio credere che lo sia ancora.
Alloggiamo da un affittacamere nella parte alta della città proprio sopra Baščaršija.
Di sera, passeggiando per il centro ritroviamo la Sarajevo giovane e viva che io ricordavo dai tempi delle mie missioni come partecipante alla forza di pace internazionale.
Sarajevo merita un racconto ben più lungo ma rimando chi fosse interessato a sapere cosa stava succedendo a poca distanza dalle nostre tranquille vacanze dei primi anni 90 all’ampia bibliografia esistente.
Una veloce visita ai miei ex colleghi militari, un grazie al loro importante lavoro in virtù del quale ho avuto la possibilità di conoscere tutti i balcani e via verso est. Appena lasciata Sarajevo ecco l’altro confine interno alla Bosnia. La Repubblica Serbska. Un cartello che oltre a demarcare un territorio ci parla di famiglie annientate, di interi villaggi rasi al suolo, di resti di famiglie spostate da una parte all’altra e che non possono più varcarlo se non scortate da convogli della forza multinazionale. Un confine che testimonia la stupidità umana.
Entrati in questa repubblica etnicamente “pura” saliamo fino ad attraversare un bellissimo altipiano alpino fino a ridiscendere a Rogatici ed Ustipraca ed imboccare la strada per Gorazde percorrendo la sponda destra del fiume Drina. L’enclave di Gorazde, ovvero una comunità di una certa etnia praticamente isolata all’interno di un territorio popolato per la maggioranza da un’altra etnia. Prima di Gorazde riattraversiamo quindi il confine lasciando la repubblica Serbska per rientrarci qualche chilometro dopo Gorazde. In questa città i militari dell’ONU non riuscirono ad impedire l’ingresso delle truppe serbe e fu una carneficina. Migliaia di uomini mussulmani sterminati e spariti in fosse comuni. Di molte di queste ancora se ne cerca traccia.
Attraversiamo Gorazde e continuiamo a seguire la Drina fino a Foča. Lasciata Foča saliamo fino ad attraversare il parco nazionale di Sutjeska con le sue bellissime gole e pareti di roccia. La strada è sempre bella. Ci dirigiamo a Trebinje per poi scendere a Dubrovnik attraversando bellissimi altipiani oltre i 1200 metri. Trebinje ha ben poco della Bosnia mussulmana, è d’obbligo una visita al monastero di Nova Gracanica ed al ponte ottomano.
Il sole è basso all’orizzonte ed il cielo diventa rosso, acceleriamo per superare l’ultimo costone di roccia che ci separa da Dubrovnik. Una zona con delle case circondate da nastro di plastica con sopra scritto “pericolo mine” ci ricorda che anche a meno di 10 chilometri da una delle più belle città dell’Adriatico è successo qualcosa di assurdo.
E’ quasi buio quando avvistiamo la bellissima e veneziana Ragusa, c’è appena il tempo per un paio di foto con l’ultimo rosso del tramonto.
Dubrovnik, benché bombardata, si è sicuramente ripresa e le ferite si stenta a vederle. Solo i tetti quasi tutti nuovi, testimoniano il passaggio della follia balcanica.
Una pioggia leggera accompagna la preparazione della moto per la partenza del terzo giorno di viaggio. Siamo diretti in Montenegro con l’idea di dirigerci verso est fino in Kosovo dove ci aspettano i militari italiani a Djakovica. Entriamo in Montenegro e continuiamo lungo la costa fino alle bocche di Cattaro, per poi entrare nel golfo di Tivat un golfo naturale che racchiude due gioielli veneziani che meritano una visita. Perast e Kotor.
Lasciata Kotor la pioggia diventa diluvio e la strada viscida. Procediamo lenti ed è pomeriggio inoltrato quando arriviamo, ormai completamente bagnati e stanchi, alla periferia di Bar dove ci fermiamo per la notte. Al mattino seguente il diluvio non è cessato, anzi, il cielo nero non segnala cambiamenti e quindi decidiamo di accantonare purtroppo l’idea di andare in Kosovo e con le tute antipioggia indossate, ci dirigiamo verso il confine Albanese. La strada perde la striscia centrale, poi perde qualsiasi segnaletica, diventa una piccola ed incerta striscia di asfalto che si insinua tra campi, supera colline e segue corsi di piccoli ruscelli. Scende e risale, attraversa tre o quattro case con anziani che ci guardano come marziani. Non stiamo andando al confine a nord del lago di Scutari ma stiamo seguendo le voci della gente che ci dice che il confine a sud è transitabile. Il confine a sud è alla fine di questa improbabile strada. Una serie di baracchette prima montenegrine poi albanesi. Perdiamo quasi due ore tra doganieri, finanzieri, assicuratori, poliziotti che ci riportano costantemente alla memoria la bellissima scena del film “Non ci resta che piangere”, “quanti siete, dove andate, da dove venite, due fiorini”. E la scena è perfetta quando un documento lasciato su di una moto ci costringe a ripassare una baracchetta e le domande ricominciano. Liberi dalle procedure che ci permettono di entrare nel paese che fino a pochi anni fa era impenetrabile riprendiamo l’incerta strada che dopo pochi metri termina e diventa sterrata. La pioggia intanto, dopo averci lasciato tranquilli per il disbrigo delle pratiche di frontiera, riprende. La strada sterrata sembra non finire mai, le buche diventano piscine nelle quali l’R100GS si tuffa felice ma che il Fazer 1000 teme e l’andatura è lenta. Abbastanza lenta da capire che stiamo attraversando non un paesaggio particolare ma un mondo diverso. Carretti tirati da cavalli, persone scalze, case che non sono case ma ricoveri. L’Albania più povera è quella che ci scorre accanto. La gente è curiosa ed abbiamo la certezze di essere i primi ad entrare in Albania da questa strada.
Finalmente arriviamo alla periferia di Torovice e dopo aver attraversato un ponte di instabili assi di legno ci immettiamo finalmente in una strada asfaltata. Buche e rattoppi nell’asfalto impongono comunque una velocità mai superiore ai sessanta all’ora. Intorno a noi montagne di rifiuti, attività commerciali che si svolgono in precarie baracche immerse nel fango. Buchi scuri all’interno dei quali si riparano gomme, si taglia legna, si vendono pezzi di ricambio. La strada continua tra campi senza trattori e colline sassose. Arriviamo alla periferia di Lezhe e sulla destra appare la tomba dell’eroe nazionale Albanese, Scandemberg. Un cavaliere di nascita serba, addestrato da ufficiale mussulmano dell’esercito turco e convertito al cristianesimo. L’uomo che adottò l’aquila a due teste come sua bandiera ed in seguito come bandiera albanese. Un serbo che combattè i mussulmani i quali, secoli dopo, combatterono i serbi con la bandiera di skandemberg cucita sul braccio. Contraddizioni balcaniche. La tomba è una ricostruzione in quanto i turchi pensarono bene di distruggere l’originale, fare a pezzi i resti dell’eroe e spargerli in giro per l’Albania. All’interno del mausoleo un busto del cavaliere, la riproduzione delle sue armi e dell’elmo e un’enorme mosaico con la bandiera albanese. La gente albanese si dimostra immediatamente cordiale gentile e ben disposta specie nei confronti di noi italiani. Quando ci fermiamo per consultare la strada si fermano per darci indicazioni ed al parcheggio del mausoleo ci dicono di stare assolutamente tranquilli per le moto. Ritroviamo tutto e continuiamo il viaggio con maggior fiducia.
La pioggia ci lascia e dopo Lezhe ci immettiamo nella nuova “autostrada” che porta a Tirana. Finalmente un fondo stradale che permette di alzare la media di viaggio e di far riposare il corpo. Lungo la strada troviamo una trattoria nella quale mangiamo dell’ottimo pesce ad un costo veramente irrisorio.
Nel primo pomeriggio entriamo alla periferia di Tirana. Di nuovo montagne di spazzatura e piccole “botteghe”. Un formicaio di persone, un concerto di clacson dove le regole più elementari della strada vengono sottomesse alla natura stessa del fondo stradale ed ai bisogni dei singoli automobilisti. Con estrema attenzione arriviamo a Piazza Skandemberg dalla quale è sparita la monumentale statua di Enver Ohxa, abbattuta nei primi anni 90 quando gli albanesi capirono l’enorme tranello nel quale erano caduti. Nessuno li voleva attaccare, sottomettere, invadere. Centinaia di migliaia di bunker che costellavano il territorio improvvisamente apparvero uno spreco immane ed il confronto diretto con il resto del mondo rivelò agli albanesi il fatto che il medioevo si era fermato nella terra delle aquile. Il centro di Tirana risulterà familiare a qualsiasi romano. E’ una copia del quartiere fascista dell’EUR. Costruito dal Duce negli anni 30 ha tutte le caratteristiche dell’architettura fascista. Tra i palazzi del ventennio spicca una piramide di cemento e vetro. Il mausoleo che il dittatore Ohxa si era fatto costruire è ora diventato un museo.
Nel 2000 per arrivare da Tirana a Durazzo ci voleva oltre un’ora per cui decidiamo di partire. Scopriamo invece che è stata costruita una vera e propria autostrada e malgrado i carretti tirati dai cavalli, le mucche tenute al “guinzaglio” dal contadino che ne osserva la lenta andatura sulla corsia d’emergenza e le greggi di pecore sulle piazzole di sosta, arriviamo a Durazzo in poco meno di 20 minuti.
E Durazzo evitiamo il centro che riserviamo alla passeggiata serale e ci dirigiamo verso sud in località Plazh (spiaggia). Una specie di Rimini albanese. Nuovi alberghi in riva al mare circondano il quartier generale della NATO per le operazioni in Kosovo alloggiato nelle ex colonie fatte costruire da Mussolini per la gioventù di quel periodo. Tentiamo di cerare un posto in spiaggia dove piazzare le tende ma due poliziotti su di una macchina civile e senza la targhetta del nome sulla divisa, vengono con il chiaro intento di crearci problemi. Solo quando gli dico che ero un militare della NATO ed ero venuto a salutare gli ex colleghi, ci ridanno i documenti e si dileguano. Decidiamo comunque di andare in albergo. Durazzo ha un bel lungomare ed un corso pedonale animatissimo. Ci perdiamo tra la gente ed ogni passo distrugge stereotipi e ci restituisce un popolo vivo, allegro con desideri simili ai nostri. Gente cordiale, gentile e disponibile.
La mattina successiva piove, anzi diluvia in maniera così violenta da costringerci a riparare sotto la pensilina di un distributore per almeno un paio d’ore. Quando ripartiamo l’unica differenza rispetto alle due ore precedenti è l’assenza di lampi e tuoni, la pioggia è incessante e ci costringe ad un’andatura lentissima. A Fier dovremmo proseguire per Valona e quindi lungo la costa ma le indicazioni ed i consigli della gente del posto ci suggeriscono di prendere la strada per Girocastro perché migliore. Ci addentriamo nella campagna albanese, la pioggia diminuisce e riusciamo a guardarci intorno. L’odore di petrolio nell’aria ci accoglie nella valle che porta a Tepelene. Nelle campagne vecchi pozzi di petrolio con l’enorme contrappeso che sale e scende, riversano oro nero nelle piantagioni e nel fiume. Alcuni fermi, rotti e mai recuperati sembrano sculture post moderne lasciate arrugginire in mezzo a fertili campi coltivati ancora con aratri tirati da buoi.
Dopo innumerevoli curve, salite e discese arriviamo a Girocastro. Finalmente c’è il sole e ci leviamo le tute anti pioggia ammirando questo paese così diverso dagli altri paesi albanesi. Arroccato ai piedi della montagna che lo separa da Saranda e dal mare, Girocastro è un agglomerato di tetti di pietra, poggioli, balconi e viuzze lastricate ai piedi di una enorme fortezza. Un viscido acciottolato ci porta con ripidissimi tornanti fino all’ingresso del castello il quale ospita il “museo delle armi”. In effetti le armi sono solo una serie di vecchi cannoni disposti forse nelle vecchie stalle in un ambiente più adatto ad una ottima cantina che non ad un museo. Gallerie buie dalle quali volte gocciola l’acqua della recente pioggia. I passi rimbombano e mettono in fuga gli uccelli che abitano il museo mentre a destra e sinistra le vecchie bocche da fuoco puntano una verso l’altra convergendo al centro verso un gigantesco bronzo di un partigiano di fronte al quale scorgiamo un residuato italiano. Un vecchio carro armato usato per “spezzare le reni alla Grecia”. Girocastro vide partire i nostri nonni per questa missione per vederli ritornare, in ritirata, dopo pochi giorni inseguiti dai Greci che si attestarono ben oltre Girocastro sulla strada per Tirana ed i quali si fermarono solo perché scambiarono la nostra ritirata per un’astuta mossa tattica avente lo scopo di attirarli in un tranello. Questi movimenti si potevano sicuramente vedere dalla terrazza della fortezza-museo, terrazza che domina i fantastici tetti della città e la bellissima valle.
La città merita sicuramente una visita ed in particolare la merita il museo del folclore albanese ospitato nella casa natale dell’ex dittatore Ohxa. Con uno sforzo tremendo, lottando contro la burocrazia, la mancanza di fondi e gli eventi naturali che periodicamente rovinano la struttura, un gruppo di appassionati ha messo insieme una serie di oggetti di vita quotidiana, di abiti e costumi, ha restuaroto ogni stanza secondo lo stile tradizionale albanese così da poter vedere oggi il più bel museo etnografico circa gli albanesi. La guida è una magra signora, maestra di scuola che dopo averci spiegato nei dettagli ogni cosa ed aver risposto ad ogni nostra domanda rifiuta gentilmente una mancia per lei deviandola immediatamente alla cassettina delle donazioni che permettono a questo posto di sopravvivere.
Lasciamo la casa di Oxha. Il tempo sembra decisamente migliorato e ci apprestiamo a lasciare l’Albania felici per essere, tutt’oggi, tra i pochi ad averla visitata da turisti

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Huey non è in linea  
Vecchio 23-11-2005, 21:00   #2
overland80
Mukkista in erba
 
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Registrato dal: 29 May 2005
ubicazione: osimo stazione (AN)"venezia per 5 giorni"
Talking scusa ma.....................

Quote:
Originariamente inviata da Huey
“Zadar, Zadar”. Una richiamo ripetuto mi sveglia e con uno scatto mi ritrovo fuori dal sacco a pelo. Faccio tardi, siamo arrivati ed ancora devo piegare materassino e sacco a pelo. Poi penso che la nave deve comunque ancora attraccare e quindi ho tempo. Il ponte si abbassa su una Zara che dorme ancora poco prima delle sei di mattina. L’aria è fresca. Il cielo ancora stellato.
Dobbiamo arrivare a Sarajevo. Sarajevo, città che in ordine cronologico ha subito l’ultimo assedio in stile medievale che la storia ricordi una volta era parte dello stesso Stato sul quale adesso accendiamo le moto. Partiamo e grazie al gps usciamo dal porto, abbandoniamo subito la costa dove gli ultimi turisti tra qualche ora affolleranno le spiagge. Lasciamo la costa per addentrarci nella storia recente. La storia che per anni ha reso irrealizzabile questo viaggio. Semplice l’idea di partire da Trieste ed arrivare in Grecia lungo la costa, idea quasi banale che mi porto dietro da quando andavo a scuola. Un sogno che accendeva fantasie di viaggi magari a bordo di un due cavalli con la chitarra suonata dal sedile posteriore e canzoni cantate a squarciagola uscire dalla cappotte aperta. Non si poteva fare quando il sogno era giornaliero. L’Albania era completamente inaccessibile. Le sue coste sconosciute agli stranieri. Non si poteva fare dopo perché l’apertura dell’Albania coincise più o meno con lo scoppio, nel 1992, della guerra nei Balcani nella quale l’uomo si esercitò in orrori che sembravano dimenticati, orrori medievali come l’assedio di Sarajevo, orrori vandalici come il bombardamento di Dubrovnik e Mostar e orrori nazisti come le pulizie etniche che “ripulirono” città come Vukovar e Gorazde riempiendo i campi di pannocchie di fosse comuni.
Partiamo allora, andiamo a realizzare il sogno di arrivare in Grecia dalla Jugoslavia, pardon, dalla Croazia. Ma il viaggio appena iniziato, già pochi chilometri fuori Zara diventa un viaggio nella storia recente. Su di un asfalto che diventerà sempre più rovinato fino quasi ad essere assente in Albania, ecco la testimonianza del macello balcanico. L’inconfondibile segno dello scoppio di una granata. Un buco centrale piuttosto rotondo circondato da raggi che partono dal centro e si allargano verso l’esterno. Non può essere confuso, impareremo presto a riconoscerli anche da lontano. Anche se ricoperti i raggi restano e segnano immancabilmente il punto. Ed allora il viaggio non può essere solo il collegamento tra due luoghi ma diventa un viaggio nella storia, ed il territorio attraversato, il suo museo.
Andiamo verso l’alba in direzione Benkovac e poi Knin. Il cielo ci regala il perfetto contorno delle montagne ad est, sempre più chiaro, poi rosa ed infine il sole a scaldarci un po’ e ad illuminare i campi circostanti. Passiamo dei paesini di poche case. Tutte uguali. Solo le mura esterne restano in piedi e mentre questi dieci anni passati hanno fatto si che le piante si impadronissero degli interni, sopra le finestre distrutte ancora si vede il nero dell’incendio che le ha finite. Prima delle otto siamo già a Knin. Territorio Croato ma paese a maggioranza Serba. Le case della periferia lo dimostrano. Invece di dirigerci a nord est come programmato proseguiamo verso sud est, verso la Bosnia e verso Mostar. Arriviamo al confine di Gorica alle 11. Di sicuro siamo entrati in Bosnia. Lo dimostrano i controlli passati, le divise della polizia di frontiera e le targhe delle macchine. Ma allora perché proseguendo il viaggio verso Medjugorie e poi verso Mostar continuiamo a vedere bandiere croate? Ma certo, la Bosnia nei piani della Croazia e della Serbia non doveva neanche esistere. Esiste grazie alla politica internazionale e grazie al fatto che qualcuno si è accorto che oltre e ortodossi e cattolici esistevano anche i mussulmani e che questi, in maggior parte abitavano e reclamavano il territorio che ora si chiama appunto Bosnia. La Bosnia nella quale ora viaggiamo non è sovrana. A sud, nell’Herzegovina è praticamente Croazia mentre a nord nell’auto proclamata Repubblica Serbska è a tutti gli effetti Serbia. Una nazione tre popoli, un popolo tre nazioni. Separati da invisibili frontiere ma da evidentissimi segni e separati da indelebili ricordi di violenze reciproche, vicino contro vicino. Lasciamo Medjugorie dove un bandierone croato copre metà facciata della piccola chiesa oppressa dai turisti e immersa tra immancabili negozietti di oggetti religiosi. Lasciamo l’altopiano e scendiamo a Mostar che improvvisamente ci appare con la sua parte ovest. Sull’ultimo tornante ci fermiamo ad osservarla. La montagna dalla quale le batterie croate hanno distrutto il famoso ponte ora accoglie una enorme croce che incombe sulla parte est della città, quella mussulmana. Un segno di fede? Una minaccia? Non lo sappiamo, vediamo però che a Mostar si incontrano i primi condomini sventrati dalle granate, segnati dai colpi e man mano che ci si avvicina al famoso ponte la situazione peggiora fino a parcheggiare le moto a ridosso della vecchia moschea vicina al fiume sul quale il ponte vecchio collegava la parte ovest a quella est. Adesso il ponte è in via di ricostruzione ed una passerella permette di collegare le due sponde. Il collegamento è virtuale. Ancora oggi accade che ci si spari da una parte all’altra della città. Su di un ponte a nord di Stari Most attraversiamo la Neretva ed entriamo nella Bosnia Mussulmana, Ci lasciamo Mostar alle spalle e proseguiamo verso Sarajevo percorrendo una bellissima gola. La strada scorre veloce tra montagne sempre più alte fino a diventare una serie di larghi tornanti che ci portano al passo dal quale si scende nella piana di Sarajevo. Sarajevo. Un nome pesante nella mia coscienza e nella coscienza di chiunque dal 1992 al 1995 abbia guardato i reportage che arrivavano da Sarajevo con un senso di impotenza opprimente. Sarajevo ci accoglie con il suo traffico da città moderna in una sniper alley , la via dei cecchini, che è irriconoscibile grazie alla vita ripresa frenetica, intensa, moderna e spero, anche multietnica come era prima della guerra. Anche il fantasma del quotidiano Oslobodjenje, una torre degli ascensori rimasta inspiegabilmente in piedi tra le macerie dei due palazzi che la affiancavano, è in via di ricostruzione. Simbolo involontario insieme alla biblioteca incendiata, al mercato bombardato ed alla quasi totalità dei palazzi crivellati o addirittura sventrati dalle granate, questo quotidiano non cessò mai di essere pubblicato ed i suoi redattori ne continuarono la pubblicazione nei sotterranei dopo che un carro serbo per ben due giorni, si piazzò sul prato i fianco e lo bersaglio fino a raderlo al suolo. Ci dirigiamo verso il centro, passiamo l’Holiday Inn , aggiriamo i resti della bellissima biblioteca ed entriamo a Baščaršija, il vecchio quartiere arabo fatto di botteghe, e casette basse. Una grande moschea, una sinagoga, una cattedrale cattolica ed una chiesa ortodossa nel raggio di trecento metri. Non esiste forse altra città al mondo dove questo è possibile. A Sarajevo si, e voglio credere che lo sia ancora.
Alloggiamo da un affittacamere nella parte alta della città proprio sopra Baščaršija.
Di sera, passeggiando per il centro ritroviamo la Sarajevo giovane e viva che io ricordavo dai tempi delle mie missioni come partecipante alla forza di pace internazionale.
Sarajevo merita un racconto ben più lungo ma rimando chi fosse interessato a sapere cosa stava succedendo a poca distanza dalle nostre tranquille vacanze dei primi anni 90 all’ampia bibliografia esistente.
Una veloce visita ai miei ex colleghi militari, un grazie al loro importante lavoro in virtù del quale ho avuto la possibilità di conoscere tutti i balcani e via verso est. Appena lasciata Sarajevo ecco l’altro confine interno alla Bosnia. La Repubblica Serbska. Un cartello che oltre a demarcare un territorio ci parla di famiglie annientate, di interi villaggi rasi al suolo, di resti di famiglie spostate da una parte all’altra e che non possono più varcarlo se non scortate da convogli della forza multinazionale. Un confine che testimonia la stupidità umana.
Entrati in questa repubblica etnicamente “pura” saliamo fino ad attraversare un bellissimo altipiano alpino fino a ridiscendere a Rogatici ed Ustipraca ed imboccare la strada per Gorazde percorrendo la sponda destra del fiume Drina. L’enclave di Gorazde, ovvero una comunità di una certa etnia praticamente isolata all’interno di un territorio popolato per la maggioranza da un’altra etnia. Prima di Gorazde riattraversiamo quindi il confine lasciando la repubblica Serbska per rientrarci qualche chilometro dopo Gorazde. In questa città i militari dell’ONU non riuscirono ad impedire l’ingresso delle truppe serbe e fu una carneficina. Migliaia di uomini mussulmani sterminati e spariti in fosse comuni. Di molte di queste ancora se ne cerca traccia.
Attraversiamo Gorazde e continuiamo a seguire la Drina fino a Foča. Lasciata Foča saliamo fino ad attraversare il parco nazionale di Sutjeska con le sue bellissime gole e pareti di roccia. La strada è sempre bella. Ci dirigiamo a Trebinje per poi scendere a Dubrovnik attraversando bellissimi altipiani oltre i 1200 metri. Trebinje ha ben poco della Bosnia mussulmana, è d’obbligo una visita al monastero di Nova Gracanica ed al ponte ottomano.
Il sole è basso all’orizzonte ed il cielo diventa rosso, acceleriamo per superare l’ultimo costone di roccia che ci separa da Dubrovnik. Una zona con delle case circondate da nastro di plastica con sopra scritto “pericolo mine” ci ricorda che anche a meno di 10 chilometri da una delle più belle città dell’Adriatico è successo qualcosa di assurdo.
E’ quasi buio quando avvistiamo la bellissima e veneziana Ragusa, c’è appena il tempo per un paio di foto con l’ultimo rosso del tramonto.
Dubrovnik, benché bombardata, si è sicuramente ripresa e le ferite si stenta a vederle. Solo i tetti quasi tutti nuovi, testimoniano il passaggio della follia balcanica.
Una pioggia leggera accompagna la preparazione della moto per la partenza del terzo giorno di viaggio. Siamo diretti in Montenegro con l’idea di dirigerci verso est fino in Kosovo dove ci aspettano i militari italiani a Djakovica. Entriamo in Montenegro e continuiamo lungo la costa fino alle bocche di Cattaro, per poi entrare nel golfo di Tivat un golfo naturale che racchiude due gioielli veneziani che meritano una visita. Perast e Kotor.
Lasciata Kotor la pioggia diventa diluvio e la strada viscida. Procediamo lenti ed è pomeriggio inoltrato quando arriviamo, ormai completamente bagnati e stanchi, alla periferia di Bar dove ci fermiamo per la notte. Al mattino seguente il diluvio non è cessato, anzi, il cielo nero non segnala cambiamenti e quindi decidiamo di accantonare purtroppo l’idea di andare in Kosovo e con le tute antipioggia indossate, ci dirigiamo verso il confine Albanese. La strada perde la striscia centrale, poi perde qualsiasi segnaletica, diventa una piccola ed incerta striscia di asfalto che si insinua tra campi, supera colline e segue corsi di piccoli ruscelli. Scende e risale, attraversa tre o quattro case con anziani che ci guardano come marziani. Non stiamo andando al confine a nord del lago di Scutari ma stiamo seguendo le voci della gente che ci dice che il confine a sud è transitabile. Il confine a sud è alla fine di questa improbabile strada. Una serie di baracchette prima montenegrine poi albanesi. Perdiamo quasi due ore tra doganieri, finanzieri, assicuratori, poliziotti che ci riportano costantemente alla memoria la bellissima scena del film “Non ci resta che piangere”, “quanti siete, dove andate, da dove venite, due fiorini”. E la scena è perfetta quando un documento lasciato su di una moto ci costringe a ripassare una baracchetta e le domande ricominciano. Liberi dalle procedure che ci permettono di entrare nel paese che fino a pochi anni fa era impenetrabile riprendiamo l’incerta strada che dopo pochi metri termina e diventa sterrata. La pioggia intanto, dopo averci lasciato tranquilli per il disbrigo delle pratiche di frontiera, riprende. La strada sterrata sembra non finire mai, le buche diventano piscine nelle quali l’R100GS si tuffa felice ma che il Fazer 1000 teme e l’andatura è lenta. Abbastanza lenta da capire che stiamo attraversando non un paesaggio particolare ma un mondo diverso. Carretti tirati da cavalli, persone scalze, case che non sono case ma ricoveri. L’Albania più povera è quella che ci scorre accanto. La gente è curiosa ed abbiamo la certezze di essere i primi ad entrare in Albania da questa strada.
Finalmente arriviamo alla periferia di Torovice e dopo aver attraversato un ponte di instabili assi di legno ci immettiamo finalmente in una strada asfaltata. Buche e rattoppi nell’asfalto impongono comunque una velocità mai superiore ai sessanta all’ora. Intorno a noi montagne di rifiuti, attività commerciali che si svolgono in precarie baracche immerse nel fango. Buchi scuri all’interno dei quali si riparano gomme, si taglia legna, si vendono pezzi di ricambio. La strada continua tra campi senza trattori e colline sassose. Arriviamo alla periferia di Lezhe e sulla destra appare la tomba dell’eroe nazionale Albanese, Scandemberg. Un cavaliere di nascita serba, addestrato da ufficiale mussulmano dell’esercito turco e convertito al cristianesimo. L’uomo che adottò l’aquila a due teste come sua bandiera ed in seguito come bandiera albanese. Un serbo che combattè i mussulmani i quali, secoli dopo, combatterono i serbi con la bandiera di skandemberg cucita sul braccio. Contraddizioni balcaniche. La tomba è una ricostruzione in quanto i turchi pensarono bene di distruggere l’originale, fare a pezzi i resti dell’eroe e spargerli in giro per l’Albania. All’interno del mausoleo un busto del cavaliere, la riproduzione delle sue armi e dell’elmo e un’enorme mosaico con la bandiera albanese. La gente albanese si dimostra immediatamente cordiale gentile e ben disposta specie nei confronti di noi italiani. Quando ci fermiamo per consultare la strada si fermano per darci indicazioni ed al parcheggio del mausoleo ci dicono di stare assolutamente tranquilli per le moto. Ritroviamo tutto e continuiamo il viaggio con maggior fiducia.
La pioggia ci lascia e dopo Lezhe ci immettiamo nella nuova “autostrada” che porta a Tirana. Finalmente un fondo stradale che permette di alzare la media di viaggio e di far riposare il corpo. Lungo la strada troviamo una trattoria nella quale mangiamo dell’ottimo pesce ad un costo veramente irrisorio.
Nel primo pomeriggio entriamo alla periferia di Tirana. Di nuovo montagne di spazzatura e piccole “botteghe”. Un formicaio di persone, un concerto di clacson dove le regole più elementari della strada vengono sottomesse alla natura stessa del fondo stradale ed ai bisogni dei singoli automobilisti. Con estrema attenzione arriviamo a Piazza Skandemberg dalla quale è sparita la monumentale statua di Enver Ohxa, abbattuta nei primi anni 90 quando gli albanesi capirono l’enorme tranello nel quale erano caduti. Nessuno li voleva attaccare, sottomettere, invadere. Centinaia di migliaia di bunker che costellavano il territorio improvvisamente apparvero uno spreco immane ed il confronto diretto con il resto del mondo rivelò agli albanesi il fatto che il medioevo si era fermato nella terra delle aquile. Il centro di Tirana risulterà familiare a qualsiasi romano. E’ una copia del quartiere fascista dell’EUR. Costruito dal Duce negli anni 30 ha tutte le caratteristiche dell’architettura fascista. Tra i palazzi del ventennio spicca una piramide di cemento e vetro. Il mausoleo che il dittatore Ohxa si era fatto costruire è ora diventato un museo.
Nel 2000 per arrivare da Tirana a Durazzo ci voleva oltre un’ora per cui decidiamo di partire. Scopriamo invece che è stata costruita una vera e propria autostrada e malgrado i carretti tirati dai cavalli, le mucche tenute al “guinzaglio” dal contadino che ne osserva la lenta andatura sulla corsia d’emergenza e le greggi di pecore sulle piazzole di sosta, arriviamo a Durazzo in poco meno di 20 minuti.
E Durazzo evitiamo il centro che riserviamo alla passeggiata serale e ci dirigiamo verso sud in località Plazh (spiaggia). Una specie di Rimini albanese. Nuovi alberghi in riva al mare circondano il quartier generale della NATO per le operazioni in Kosovo alloggiato nelle ex colonie fatte costruire da Mussolini per la gioventù di quel periodo. Tentiamo di cerare un posto in spiaggia dove piazzare le tende ma due poliziotti su di una macchina civile e senza la targhetta del nome sulla divisa, vengono con il chiaro intento di crearci problemi. Solo quando gli dico che ero un militare della NATO ed ero venuto a salutare gli ex colleghi, ci ridanno i documenti e si dileguano. Decidiamo comunque di andare in albergo. Durazzo ha un bel lungomare ed un corso pedonale animatissimo. Ci perdiamo tra la gente ed ogni passo distrugge stereotipi e ci restituisce un popolo vivo, allegro con desideri simili ai nostri. Gente cordiale, gentile e disponibile.
La mattina successiva piove, anzi diluvia in maniera così violenta da costringerci a riparare sotto la pensilina di un distributore per almeno un paio d’ore. Quando ripartiamo l’unica differenza rispetto alle due ore precedenti è l’assenza di lampi e tuoni, la pioggia è incessante e ci costringe ad un’andatura lentissima. A Fier dovremmo proseguire per Valona e quindi lungo la costa ma le indicazioni ed i consigli della gente del posto ci suggeriscono di prendere la strada per Girocastro perché migliore. Ci addentriamo nella campagna albanese, la pioggia diminuisce e riusciamo a guardarci intorno. L’odore di petrolio nell’aria ci accoglie nella valle che porta a Tepelene. Nelle campagne vecchi pozzi di petrolio con l’enorme contrappeso che sale e scende, riversano oro nero nelle piantagioni e nel fiume. Alcuni fermi, rotti e mai recuperati sembrano sculture post moderne lasciate arrugginire in mezzo a fertili campi coltivati ancora con aratri tirati da buoi.
Dopo innumerevoli curve, salite e discese arriviamo a Girocastro. Finalmente c’è il sole e ci leviamo le tute anti pioggia ammirando questo paese così diverso dagli altri paesi albanesi. Arroccato ai piedi della montagna che lo separa da Saranda e dal mare, Girocastro è un agglomerato di tetti di pietra, poggioli, balconi e viuzze lastricate ai piedi di una enorme fortezza. Un viscido acciottolato ci porta con ripidissimi tornanti fino all’ingresso del castello il quale ospita il “museo delle armi”. In effetti le armi sono solo una serie di vecchi cannoni disposti forse nelle vecchie stalle in un ambiente più adatto ad una ottima cantina che non ad un museo. Gallerie buie dalle quali volte gocciola l’acqua della recente pioggia. I passi rimbombano e mettono in fuga gli uccelli che abitano il museo mentre a destra e sinistra le vecchie bocche da fuoco puntano una verso l’altra convergendo al centro verso un gigantesco bronzo di un partigiano di fronte al quale scorgiamo un residuato italiano. Un vecchio carro armato usato per “spezzare le reni alla Grecia”. Girocastro vide partire i nostri nonni per questa missione per vederli ritornare, in ritirata, dopo pochi giorni inseguiti dai Greci che si attestarono ben oltre Girocastro sulla strada per Tirana ed i quali si fermarono solo perché scambiarono la nostra ritirata per un’astuta mossa tattica avente lo scopo di attirarli in un tranello. Questi movimenti si potevano sicuramente vedere dalla terrazza della fortezza-museo, terrazza che domina i fantastici tetti della città e la bellissima valle.
La città merita sicuramente una visita ed in particolare la merita il museo del folclore albanese ospitato nella casa natale dell’ex dittatore Ohxa. Con uno sforzo tremendo, lottando contro la burocrazia, la mancanza di fondi e gli eventi naturali che periodicamente rovinano la struttura, un gruppo di appassionati ha messo insieme una serie di oggetti di vita quotidiana, di abiti e costumi, ha restuaroto ogni stanza secondo lo stile tradizionale albanese così da poter vedere oggi il più bel museo etnografico circa gli albanesi. La guida è una magra signora, maestra di scuola che dopo averci spiegato nei dettagli ogni cosa ed aver risposto ad ogni nostra domanda rifiuta gentilmente una mancia per lei deviandola immediatamente alla cassettina delle donazioni che permettono a questo posto di sopravvivere.
Lasciamo la casa di Oxha. Il tempo sembra decisamente migliorato e ci apprestiamo a lasciare l’Albania felici per essere, tutt’oggi, tra i pochi ad averla visitata da turisti
non ho capito dove 6 andato?????
PS bello bello bello......veramente bello!!!
__________________
mamma...in un altra vita voglio nascere donna!!!
:rolleyes: ma 6 gay??:rolleyes:
no no..voglio solamente avere un pacco di soldi senza fare un c........:lol: :lol: :lol: :lol: :lol: :lol:
overland80 non è in linea  
Vecchio 23-11-2005, 21:55   #3
novantottoottani
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Cronaca molto emozionante,mi torna in mente un viaggio dell'agosto 1991 da Trieste fino al confine dell'Albania lungo la costa dell'allora Jugoslavia con il motorcaravan, gia' si percepiva nell'aria la catastrofe che inconbeva,ma ho avuto la fortuna di vedere intatte tutte le bellezze che Tu descrivi poco prima che venissero travolte degli eventi.Non ti immagini il senso di disagio provato quando vedevo le strade percorse pochi mesi prima,colme di turisti e di popolazione locale,trasformate in sudari di dolore percorse da colonne di anziani,donne,bambini in fuga da atrocita' in nome dell'etnia.Ricordi belli per il viaggio,tragici per cio' che e' successo dopo.
__________________
Vivi come se dovessi morire domani,pensa come se dovessi vivere in eterno.....
k1200gt Top Class
novantottoottani non è in linea  
Vecchio 23-11-2005, 22:19   #4
fatasco
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Registrato dal: 25 Feb 2003
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Complimenti per il viaggio e per il racconto
__________________
fabrizio (tv) vado piano ma vado
il bello di qde è che fra tanti forumisti puoi trovare degli amici
fatasco non è in linea  
Vecchio 25-11-2005, 12:39   #5
gig
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ubicazione: Ancona
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Non ho ancora letto tutto, ma complimenti. Sono stato in Bosnia questa estate, e mi ritrovo nelle sensazioni che hai descritto.
Ricordo ancora sulla pelle l'effetto di entrare a Mostar tra due ali di case segnate dai bombardamenti, in parte distrutte. E il piccolo cimitero nel cortile della moschea, e quelli grandi che incombevano, sopra la città...
E Sarajevo, e Srebrenica....
E i paesaggi stupendi lungo la strada, interrotti all'improvviso da un muro con segni di granate, che ti riporta alla realtà, a qualche anno fa... e al pensiero che succedeva così vicino a noi..
gig non è in linea  
Vecchio 07-12-2005, 11:59   #6
tommygun
Mukkista doc
 
L'avatar di tommygun
 
Registrato dal: 14 Mar 2005
ubicazione: Sono romano ma è chiaramente un errore.
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Veramente un bel racconto....
Molto toccante per me che sono stato a Sarajevo per un mese, nel 1998... mi hai fatto venire il magone e ripensare a certe cose, ma anche il piacere di ricordare una delle più belle esperienze della mia vita.

Grazie!
__________________
Più bici che moto ormai.
tommygun non è in linea  
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