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Visualizza la versione completa : MONGOLIA CON MOTO A NOLEGGIO (report)


Massimo
18-10-2023, 10:18
https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/8V1IoE.jpg (https://imageshack.com/i/po8V1IoEj)

PREMESSA

La Mongolia evoca nell’immaginario collettivo, alimentato dalla ricca documentazione disponibile, l’idea di spazi sconfinati, isolati e scarsamente popolati ed è un paese che ben identifica forse il più tipico paesaggio asiatico, costituito da infinite praterie e steppe semidesertiche.

Semplicemente guardando i vari documentari naturalistici, periodicamente proposti sul piccolo schermo, o ricercando il materiale disponibile su internet, il viaggiatore che desidera avventurarsi da queste parti, alla ricerca di ambienti sempre più diversi e lontani dal proprio habitat domestico, si può rendere facilmente conto di ciò che lo attende.

Questo non significa però che un viaggio in Mongolia sia uguale (e, oserei dire, scontato) indistintamente per tutti: la differenza, a parità di paesaggi e itinerario, la fa infatti il mezzo utilizzato.

Quando leggo di turisti che raccontano le proprie avventure mongole, ma che si sono serviti di tour organizzati, con pulmini, jeep, autisti e guide, ed usano frasi del tipo “abbiamo visto questo… siamo andati in tale o talaltro posto” e via dicendo, mi viene da sorridere perché in realtà dovrebbero dire “ci hanno portato, ci hanno fatto vedere”.

Un conto, infatti, è farsi scarrozzare in comodità da un luogo all’altro, un conto è andarci con un mezzo proprio, guidandolo; e ciò a prescindere dallo strumento utilizzato, sia esso auto o moto.

E ciò per il semplice motivo che, soltanto guidando direttamente, e meglio ancora in autonomia, ci si rende compiutamente conto dell’ambiente in cui ci si trova. E’ una sorta di immersione totale, fatta anche da difficoltà, fatica e determinazione. Solo così, a mio parere, la Mongolia ti entra dentro e soprattutto ti resta dentro, come in ogni viaggio dovrebbe accadere.

Intendiamoci, non si tratta di compiere alcuna impresa o avventura straordinaria, ma semplicemente di vivere un’esperienza lontana (anche geograficamente) dai luoghi comuni, ma ancor più lontana dalla presenza umana, dato che, al di fuori della capitale, non si incontra praticamente quasi nessuno. E questo, ai giorni nostri, è ormai un raro privilegio.

Una persona che stimo molto, giornalista, viaggiatore e motociclista, ha scritto che gli avventurieri non esistono più, perché non ci sono più luoghi sulla terra dove vivere avventure. Esistono (e siamo) solo turisti alla fine della fiera. Se ci pensate è vero, terribilmente vero; per cui anche la Mongolia è una terra turistica, lontana sì, ma pur sempre turistica.

Con questo non voglio dire che un viaggio in moto, in autonomia e senza mezzi di supporto, sia alla portata di tutti. Tuttavia la portata si misura soprattutto in termini psicologici o - se volete - mentali. Non c’è nulla di difficile (a parte qualche raro guado profondo o salita ripida su terreno infido), ma occorre mettere in conto le conseguenze dell’isolamento in cui ci si trova immersi, soprattutto se ci si avventura nel grande deserto del Gobi.

Una caduta o un guasto – ripeto se si viaggia in due (come abbiamo fatto noi) e senza mezzi di supporto – può diventare una situazione parecchio complicata da gestire. Cercare aiuto, su alcune tratte totalmente isolate, può richiedere indefinite ore di guida su piste in mezzo al nulla più assoluto. E chi resta, magari infortunato o con la moto in panne, deve gestire tutto questo tempo in completa solitudine, sperando che gli aiuti arrivino prima che faccia buio, cosa assai difficile da realizzare.

Con il senno del poi, è consigliabile essere in quattro, così in caso di emergenza, due partono e due restano; non di più perché la gestione delle emozioni e delle difficoltà di ciascuno – ripeto sempre senza mezzi di supporto – può risultare non sempre agevole. C’è poi chi ha la capacità, anche mentale, di muoversi completamente solo, ma si tratta di superuomini evoluti che posso solo ammirare, ma non imitare.

E sfatiamo la leggenda metropolitana che, in caso di problemi, si può chiedere aiuto a nomadi mongoli, sparsi lungo il percorso, che sono sempre ospitali e disponibili. Questo può essere vero solo dove ci sono i nomadi, ovvero per le prime centinaia di chilometri a sud di Ulan Bator, dove esistono pascoli verdissimi con pecore, mucche, cavalli e yak; ma ciò non accade nel deserto, dove i nomadi non ci sono perché non hanno alcun motivo per esserci.

Per cui, in caso di necessità, nel Gobi duro e puro bisogna arrangiarsi.

Altro discorso invece per chi partecipa a tour motociclistici organizzati, con tutta l’assistenza necessaria: in tal caso la cosa è veramente alla portata di tutti perché ci sono altri che pensano a tutto. Personalmente non sono attratto da esperienze di tal fatta e quindi mi astengo da ogni commento.

Ciò detto, perché ci è venuta in mente la Mongolia?

Alberto ed io stavamo ipotizzando un giretto semplice e avevamo messo gli occhi sul Laos o il Vietnam, poi, quasi per caso, uno dei due ha buttato lì la parola magica: Mongolia. E ora siamo qua a raccontarvela.

E devo dire che abbiamo fatto bene e fareste bene anche voi ad anticipare il viaggio, se vi frulla l’idea di farlo. Questo perché, pian piano, l’asfalto sta prendendo piede un po’ ovunque. Credo che nel giro di pochi anni, da quel che abbiamo visto e intuito, il trend sia quello di asfaltare le piste principali per renderle comode a misura di turista comodo. Chi ci ha preceduto una decina di anni fa, ha raccontato di piste che ora sono strade asfaltate. Per cui affrettatevi, prima che la Mongolia diventi Disneyland.

MONGOLIA: UN PO’ DI GEOGRAFIA

Da quel che ho letto in giro, ho l’impressione che la buona parte dei viaggiatori sappia gran poco della Mongolia, per cui vi do alcune elementari informazioni, giusto per collocarla con maggior cognizione sul nostro planisfero.

Innanzitutto ci troviamo nell’Asia orientale, una delle macroregioni dell'Asia, nel bel mezzo del confine tra la Russia e la Cina, gli unici due paesi confinanti.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/xuq3EH.jpg (https://imageshack.com/i/poxuq3EHj)

Le dimensioni non sono certo trascurabili: la Mongolia misura in larghezza (da ovest a est) 2400 km e in lunghezza (da nord a sud) 1300 km; il tutto per la bellezza di un milione e mezzo di chilometri quadrati. In pratica è grande cinque volte l’Italia con una popolazione inferiore a quella della Toscana. Peraltro, diversamente da quel che si può pensare, la Mongolia è parecchio più piccola del Kazakistan.

Diciamo comunque che i 3,3 milioni di mongoli sono belli diradati: escluso il milione e mezzo che abita nella capitale, il resto ha a disposizione spazi davvero sconfinati, per cui mediamente un chilometro quadrato è occupato da meno di due abitanti. Se vuoi proprio litigare con qualcuno, devi andartelo a cercare!

Le principali aree di d’interesse sono sostanzialmente due: i Monti Altaj e il deserto del Gobi.

L’Altaj è un complesso sistema montuoso dell'Asia che si estende per circa 2000 km e che occupa, per quanto riguarda la Mongolia, la zona più occidentale. La cima più alta, il monte Belucha (4506 m) si trova però in territorio russo.

Il Gobi è invece un deserto vastissimo (un milione e trecento mila chilometri quadrati), che occupa anche parte della Cina settentrionale. L’escursione termica nel corso dell’anno raggiunge in alcune zone anche 80 gradi e in inverno nevica pure. E’ sostanzialmente una zona arida, con terreno sabbioso-ghiaioso compatto disseminato di rari arbusti bassi, in cui le ruote affondano facilmente. Provenendo da nord, e dunque da Ulan Bator, si avverte il suo inizio quando le verdissime praterie lasciano progressivamente spazio a questa terra arida e inospitale e quando spariscono le mandrie di cavalli e mucche e si cominciano ad incontrare solo cammelli.

Le dune di sabbia sono principalmente circoscritte, a quanto mi risulta, ad una parte ridotta (chiamata Khongoryn Els) della sterminata superficie desertica del Gobi: una distesa lunga 80 km per 5 km di larghezza e 100 metri di altezza. Naturalmente sono l’area più gettonata turisticamente e sono state anche il punto topico del nostro viaggio.

Altaj e Gobi richiedono due viaggi a parte, date le distanze. Noi abbiamo optato per il deserto, ma da quel che abbiamo potuto intuire l’Altaj, seppur completamente diverso, è una meta assolutamente meritevole di essere visitata, anche se, per logistica e quant’altro, è meno agevole da organizzare.

Al di là dell’inflazionato e banale slogan turistico per eccellenza (“Mongolia, la terra del cielo blu”… come se nel resto del mondo fosse di un altro colore), da queste parti un salto prima o dopo bisognava farlo e, con il senno del poi, posso dire che il cielo (quando è limpido) è effettivamente blu, ma è soprattutto alla notte che lascia sbalorditi, quando si accende di stelle che dalle nostre parti ci sogniamo di vedere.

IL PERCORSO

Il nostro viaggio ha seguito il percorso classico ad anello con partenza e arrivo a Ulan Bator, la capitale del paese. Abbiamo scelto il senso anti orario, per poter affrontare subito la parte più impegnativa e tenerci per ultima, come rientro, la parte più noiosa e monotona, ma anche più agevole in quanto asfaltata, in caso fossimo in ritardo.

Qui vedete il percorso seguito e la sua collocazione nell’area dell’Asia Orientale.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/923/GvL3t4.jpg (https://imageshack.com/i/pnGvL3t4j)

E qui vedete il percorso più in dettaglio, sia su mappa che su satellite.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/69lEki.jpg (https://imageshack.com/i/po69lEkij)

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/923/M5DmzW.jpg (https://imageshack.com/i/pnM5DmzWj)

Complessivamente abbiamo percorso 2263 km, di cui 943 km sterrati (42%). L’intenzione originaria prevedeva di rientrare in tre tappe con due deviazioni sterrate, ma, veramente provati dalla stanchezza (e già appagati da ciò che avevamo visto), abbiamo deciso di accorciarla in due tappe solo asfaltate.

Si tratta, in buona sostanza, del percorso che affrontano praticamente quasi tutti i tour organizzati, soprattutto quelli automobilistici, perché tocca i luoghi di maggior interesse naturalistico e paesaggistico. Una sorta di “gita delle pentole”, tipo quelle con cui, negli anni ottanta, ti portavano in pulmann da Padre Pio, compreso pranzo offerto e dimostrazione non vincolante di batterie di pentole in acciaio inox 18/10 appunto.

A parte le pentole, è probabilmente il miglior giro da fare per la prima visita del paese e se lo fanno tutti ci sarà pure una ragione. Quindi nulla di così straordinario. Naturalmente nulla vieta di arricchirlo con varianti o deviazioni in zone ancor più remote, ma l’impressione che abbiamo avuto è che, fuori dal circuito classico, ci sia ben poco da vedere e soprattutto che non vada quasi nessuno.

Alla fine, come detto all’inizio, abbiamo fatto i turisti in moto, anche perché - stringi stringi - altro non siamo che turisti.

Per quanto riguarda lo sterro, dico subito che assai raramente si svolge su strade bianche come siamo abituati dalle nostre parti, ossia su un percorso ben delimitato e individuabile. Si tratta invece prevalentemente di piste, che sono cosa assai diversa.

Immaginatevi di avere un terreno libero e di poter passare dove volete (o dove vi viene più comodo) per andare da A a B, e che, dai e dai, a forza di passare si formino dei segni sul terreno. Ebbene, a lungo andare vengono a crearsi delle tracce più o meno parallele che possono occupare in larghezza anche un chilometro. Ne risulta una specie di autostrada immaginaria con un numero indefinito di corsie fatte di segni più o meno marcati: queste sono le piste.

La faccenda però non è così scontata, perché, in realtà, presa una di queste corsie (o tracce), non è detto che sia conveniente seguirla per tutta la sua lunghezza da A a B, a causa di fango, guadi, sabbia, ghiaione o soprattutto toulé ondulé che in sequenza si parano davanti. Pertanto è un continuo passaggio da una pista all’altra alla ricerca del fondo più agevole o, laddove non è possibile, è un continuo passaggio fuori pista, ossia su terreno libero anche se magari più sabbioso.

A forza di passare (e di scegliere il percorso migliore) il numero di piste aumenta di volta in volta, perché se ne creano di nuove ad ogni passaggio.

Va poi precisato che alcune di queste tracce parallele prendono, a tradimento, anche direzioni diverse, per cui occorre necessariamente disporre di un buon navigatore e una buona cartografia, ma soprattutto saperli usare bene, perché basta un attimo per sbagliare pista e trovarsi dove magari non si riesce più proseguire o distanti chilometri dalla direzione voluta.

Il terreno che abbiamo incontrato lungo il percorso è generalmente facile (nel senso che non richiede particolari capacità tecniche di guida e dunque risulta aprioristicamente alla portata di tutti), ma risulta faticoso, talvolta parecchio faticoso, per via del già citato toulé ondulé che prevale di gran lunga in termini quantitativi sul chilometraggio da percorrere.

Credo che tutti sappiano cosa è il toulé ondulé. Per chi non lo sapesse faccio un esempio banale: avete presente le onduline che vendono nei centri commerciali per coprire le verande? Ecco, immaginatevi di metterle in senso trasversale sulla strada e di guidarci sopra. Hai voglia a teorizzare sulla velocità di galleggiamento o di risonanza, ossia su quella velocità (di volta in volta variabile a seconda della moto, della distanza e della profondità degli avvallamenti); in pratica è tutta una vibrazione ritmica, fastidiosa e faticosa da gestire.

Il toulé ondulé si forma per l’azione del vento combinata al passaggio dei vari mezzi a quattro ruote che sfrecciano a velocità nemmeno immaginabili per le moto.

Abbiamo percorso anche 150 km filati di toulé ondulé in una sola giornata (tipo, per rendere l’idea, da Verona a Bolzano sulle onduline di Leroy Merlin) e ne siamo usciti veramente stravolti dalla fatica.

Abbiamo trovato toulé ondulé sabbioso, ghiaioso e di terreno duro… insomma per tutti i gusti. Ci sono poi brevi tratti su sabbia e altri su ghiaia smossa, talvolta in salita. Si incontrano anche solchi longitudinali, più o meno profondi, di sabbia, ghiaia e fango, come pure guadi e ancora fango.

Ripeto nulla di difficile, nemmeno per un inetto come me. Il terreno migliore, dove ci si sente veramente liberi, sono comunque i prati sconfinati, magari ricoperti di fiori, dove si guida ad cazzum, seguendo il proprio istinto: il fondo è soffice, le ruote tengono bene senza il rischio di scivolare… basta solo evitare qualche buca o sasso sporgente.

Guidare liberi sui prati dalle nostre parti è cosa assai rara (e credo pure vietata); in Mongolia invece potete togliervi la voglia senza preoccupazioni.

Comunque se mi dite Mongolia, la prima cosa che mi viene in mente è toulé ondulé. Credo di aver reso l’idea.

Dico anche che le tappe sono pressoché obbligate, nel senso che arrivano sempre in posti dove si trova da dormire. Scombinando il percorso può risultare difficile trovare sistemazioni. In ogni caso le tappe (a parte quelle in prevalenza asfaltate) non superano mai i 130-150 km giornalieri e sono dunque fattibili anche per i meno resistenti.

Come dicevo, abbiamo dovuto modificare parzialmente il percorso per la difficile o incerta transitabilità di alcuni tratti. Inoltre negli ultimi giorni l’abbiamo accorciato.

Con esclusione dei giorni necessari per arrivare e partire, per ambientarci e per fare il giro di test, abbiamo dunque impiegato complessivamente 11 giorni. Come vedremo, più avanti, se avessimo fatto tutto il giro programmato, avremo impiegato un giorno in più, cioè 12 giorni. Questi sono i tempi minimi necessari se si vuole arrivare fino alle dune di Konghorin Els, nel Gobi. In minor tempo, a mio parere, non è proprio possibile.

Per rendere meglio l’idea, nella mappa qui sotto è evidenziato in blu il tracciato effettivamente seguito, e in giallo le parti saltate o bypassate.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/923/QBKfoo.jpg (https://imageshack.com/i/pnQBKfooj)

Qui sotto il grafico dell’elevazione. La quota minima è stata di 1000 metri, mentre quella massima è stata di 2400 metri. L’altitudine media è di 1500 metri, ma buona parte del percorso si mantiene al di sotto.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/HUUYJ3.jpg (https://imageshack.com/i/poHUUYJ3j)

In altri termini il terreno è prevalentemente piatto e le salite sono sempre moderate. La Mongolia, e il Gobi soprattutto, sono sostanzialmente pianura.

SE LE IMMAGINI NON SI VEDONO SU TAPATALK, SCEGLIERE LA VISUALIZZAZIONE WEB DA APP

iteuronet
18-10-2023, 11:30
ehm almeno io non vedo ne qui sotto ne qui sopra....piu in generale qui

Zorba
18-10-2023, 13:07
Seguo, nel frattempo complimenti per lo stile di scrittura, raro. :)

pacpeter
18-10-2023, 14:27
Per me un sogno. Vediamo se leggendoti mi decido

stino
18-10-2023, 15:07
Aspetto la continuazione,come al solito molto coinvolgente

essemme
18-10-2023, 15:09
....un mito.

ValeChiaru
18-10-2023, 15:34
Preparpo i popcorn... qualcuno pensi alle birre che la cosa si fa interessante...

momi20
18-10-2023, 22:43
Non riesco a vedere immagini : devo correggere qualcosa nelle impostazioni ?

indianlopa
19-10-2023, 08:29
Massimo non si vedono le immagini, Momi credo che le tue impostazioni vadano bene...

Massimo
19-10-2023, 11:15
Ragazzi sto cercando di risolvere. Ho notato che non si vedono più nemmeno le immagini di tutti i miei altri post precedenti. È un problema del sito hosting. Abbiate pazienza. Conto di risolvere a brevissimo.

MacMax
19-10-2023, 11:35
Complimenti per il viaggio, tanta (sana) invidia!
Che moto avete noleggiato?

Massimo
19-10-2023, 13:41
Ora dovreste vedere tutte le foto, sia da pc, sia da cell, sia da app tapatalk. Se mi confermate vado avanti. Vi ringrazio e mi scuso.

augusto
19-10-2023, 15:37
Tapatalk ok, grazie.


Inviato dal mio iPhone utilizzando Tapatalk

indianlopa
19-10-2023, 15:58
👍...................

pacpeter
19-10-2023, 15:59
Si vede tutto, grazie!

Romanetto
19-10-2023, 16:29
confermo da pc si vedono :)

Il Giova
19-10-2023, 17:00
Ho il dvd di transiberiana del Marco Polo team e ci andarono con i Gs1200Adv e una macchina a supporto. Subito furono affascinati dalle distese e gli sterrati ma dopo un pò si stancarono per la monotonia del territorio. Per cui non provo invidia e sinceramente ci sono cose più interessanti a mio giudizio. Il report comunque è ben dettagliato e interessante.

Massimo
19-10-2023, 17:01
COME ARRIVARE

Chi ha intenzione di girare da queste parti ha tre possibilità:

a) può ovviamente arrivarci via terra dall’Italia, ma il viaggio è lungo e laborioso e, se il tempo è poco, l’opzione è da scartare. La strada più corta prevede l’attraversamento in sequenza di Austria, Cechia, Polonia, Bielorussia e Russia; il tutto per la bellezza di 8.800 km.

b) può spedire la propria moto via terra a Ulan Bator. I polacchi di ADVfactory quest’anno non spedivano in Mongolia, per cui occorre trovare un altro vettore affidabile, cosa non semplice.

c) può noleggiare una moto in loco e raggiungere la capitale in aereo, con costi inferiori, ma con maggiori incertezze sull’affidabilità del mezzo meccanico. A nostro avviso questa è la soluzione decisamente migliore, sia per quanto riguarda i tempi che i costi. Inoltre consente di utilizzare il mezzo più idoneo allo scopo, anche se il meno performante. Sull’argomento dirò in dettaglio più avanti.

VOLI

A parte l’ipotesi a), vi servirà un aereo per raggiungere il punto di partenza, che è necessariamente la capitale del paese.

Allo stato attuale i voli via Russia tramite la compagnia Aeroflot Russian Airlines, che sono i più brevi, non risultano praticabili. Per cui l’unica soluzione alternativa è volare via Turchia con l’eccellente Turkish Airlines, che gestisce entrambe le tratte, la prima fino a Istanbul e la seconda fino a Ulan Bator (quest’ultima tratta è gestita di concerto con la compagnia di bandiera mongola, MIAT Mongolian Airlines, per cui potete volare anche su un aeromobile di quest’ultima, ma il tutto è gestito dai turchi).

Il vantaggio di volare con un'unica compagnia semplifica check-in e trasporto bagagli, pertanto non ha senso, a mio avviso, utilizzare compagnie diverse per risparmiare pochi spiccioli.

Prenotando con almeno 4-5 mesi di anticipo abbiamo speso 1.375 euro a testa, andata e ritorno, con franchigia bagaglio di 30 kg in stiva (che vi serviranno tutti).

La prima tratta dura circa due ore, la seconda quasi nove. Le attese all’aeroporto di Istanbul sono di 4-5 ore, ma è meglio così perché, in caso di ritardi, si evita di perdere la coincidenza. E poi anche perché allo scalo di Istanbul certo non ci si annoia.

Mettente in conto che da casa (in Italia) all’hotel (a Ulan Bator) abbiamo impiegato 26 ore tra una cosa e l’altra.

DOCUMENTI E VISTI

Per il transito aeroportuale in Turchia basta la carta d’identità. Per entrare in Mongolia serve il passaporto con validità residua di almeno sei mesi. Non è al momento richiesto il visto, ma verificate in anticipo semmai dovessero cambiare le regole.

Per guidare in teoria servirebbe la patente internazionale (convenzione di Vienna del 1968) che dura tre anni e si richiede alla Motorizzazione. Portate anche la patente nazionale. Il noleggiatore ci aveva detto che la patente non serve e che nessuno ce l’avrebbe mai chiesta, ma non è stato così. In ogni caso, al bisogno, esibite solo quella internazionale… anche se la polizia non sa che cosa sia e probabilmente non l’ha mai vista.

Abbiamo incontrato ragazzi olandesi in moto che non avevano la patente… nel senso che non ce l’avevano proprio, nemmeno in Olanda. Tenete conto che a Ulan Bator circolano rarissime moto europee o giapponesi senza targa e quindi immagino anche senza carta di circolazione, che però esiste e a noi l’hanno data. L’assicurazione, come accennato, invece non esiste proprio per i motoveicoli.

Noi abbiamo fatto una polizza specifica contro gli infortuni di viaggio, che non serve per farvi venire a prendere da un carro attrezzi, ma che è in grado di organizzare cure e rientro aereo in caso di emergenze gravi. Le polizze sono tutte inadeguate al contesto mongolo, anche se in teoria coprono tutto il mondo: la meno peggio è quella proposta da Columbus Assicurazioni, facilmente acquistabile on line.

Consiglio vivamente una SIM mongola: ne abbiamo fatta una per pochi spiccioli con 15 Giga di traffico incluso. Si è rivelata molto utile perché nei campi tendati, quasi sempre, c’è copertura, anche nel deserto.

POLIZIA E CONTROLLI

La polizia si incontra raramente. Noi siamo stati fermati due volte, la prima perché stavamo girando di notte senza casco né documenti, la seconda per un normale controllo di routine. In entrambe le occasioni senza conseguenze.

La polizia gira su grandi SUV neri, oppure la si trova generalmente ai caselli dove talvolta si paga il pedaggio, che sono spesso collocati a fianco di una stazione di controllo.

Diciamo che abbiamo sempre incontrato agenti pacifici e disponibili alla comprensione. Da quel che abbiamo visto la polizia non è armata. Al posto della paletta utilizza una specie di spada laser corta con led colorati.

Direi che la rara polizia non è assolutamente un problema.

I controlli di sicurezza all’aeroporto sono veloci e avvengono in via automatica tramite scansione del passaporto.

CARBURANTE

Per le Shineray è consigliata benzina a 92 ottani disponibile ovunque, salvo nei rari casi di distributori trovati temporaneamente esauriti. Il serbatoio tiene 14 litri e ci hanno detto che si fanno 300 km. In realtà noi abbiamo verificato consumi medi di 40 km con un litro (e anche più). Per cui ci sentiamo di dire che l’autonomia è di 400 km.

Non si incontrano difficoltà di rifornimento, ma i distributori, salvo rarissime eccezioni, sono concentrati in prossimità dei radi centri abitati. Sui file GPX e KML allegati sono segnati con precisione i distributori da cui ci siamo riforniti. Un paio sono strategici, nel senso che lì dovete rifornirvi per forza per evitare il rischio di restare a secco (nel caso, ad esempio, in cui dobbiate tornare indietro a cercare aiuto).

Non ricordo quanto costa la benzina, ma sicuramente meno di un euro al litro.

VITTO E ALLOGGIO

Fatta eccezione per Ulan Bator, le cittadine e i paesi più grandi (dove esistono alberghi sgangherati con bagno in camera a cifre ridicole), le sistemazioni sono in campi tendati. Una specie di campeggi con ristorante e bagni comuni, dove le tende (che qui si chiamano gher o yurte) sono già belle che montate. In genere ospitano due persone in letti più o meno comodi: non si dorme quindi per terra. Sono dotate di piumini (la notte fa freschino anche nel Gobi) e talvolta di asciugamani e ciabatte. Nelle località più alte di quota c’è una stufa centrale di ghisa che si può caricare a legna (fortunatamente non a sterco di vacca).

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/922/czulD0.jpg (https://imageshack.com/i/pmczulD0j)

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/922/bQhrDK.jpg (https://imageshack.com/i/pmbQhrDKj)

I ristoranti dei campi offrono cena e colazione a menù fisso non modificabile. La cucina è quella che è e bisogna un po’ accontentarsi. I bagni e le docce (almeno per la nostra esperienza), in termini di pulizia, vanno dal più che sufficiente all’eccellente. In alcuni campi pulivano addirittura ogni mezz’ora. Il disagio semmai è caratterizzato dalla temperatura e dalla pressione dell’acqua, che in effetti, può variare di molto. Ma alla fine della giornata, buttarci su un letto a pancia piena è tutto quello di cui abbiamo bisogno, anche se la doccia magari è appena tiepida.

Riguardo ai prezzi degli hotel, a Ulan Bator si trova di tutto e per tutte le tasche (consiglio strutture nuove o seminuove e in stile occidentale, dato che con le stelle ci vanno di manica larga). Nelle cittadine lungo il percorso abbiamo sempre dormito in alberghi a mille mila stelle (teoriche) a cifre di molto inferiori a quelle dei campi tendati (anche 23 euro in due e, se non ricordo male, pure meno). Nei campi tendati invece si spendono mediamente 35-50 euro a cranio in mezza pensione. Non sono mancati casi in cui abbiamo speso di più. Tuttavia ho l’impressione che i prezzi non siano fissi per tutti… non aggiungo altro.

ASSISTENZA

In caso di guasto alla moto dovete arrangiarvi.

Nelle praterie dove stanno piazzati i nomadi a custodire le loro mandrie è abbastanza facile incontrarli e loro stessi usano motorette uguali (nelle parti principali) a quelle che avrete noleggiato; le usano per governare gli animali. In queste zone, se siete in panne, potete chiedere aiuto a loro. Tenete conto tuttavia che, se si rompe qualcosa da sostituire, non è che abbiano un’officina completa di ricambi al seguito, per cui dubito che possano risolvere qualsiasi problema.

Nel Gobi, o comunque nelle aree dove non c’è nulla per far pascolare gli animali, come detto, i nomadi o non ci sono proprio o sono, comunque, assai rari, per cui la faccenda qui diventa difficile. Occorre recuperare un mezzo di fortuna (a trovarlo) e farsi portare in qualche paesetto o cittadina con meccanico (a trovarlo). I tempi naturalmente non sono calcolabili.

Consiglio dunque caldamente di partire con la moto in ordine, molto in ordine, ma mi rendo conto che bisogna accontentarsi di quel che passa il convento pregando il Buddha che vada tutto per il meglio.

BANCA E VALUTE

In Mongolia circola il Tugrik mongolo (ne servono circa 3700 per fare un euro). Esistono solo banconote in tagli da 5, 10, 20, 50, 100, 500, 1000, 5000, 10000 e 20000. A spanne 5 tugrik equivalgono a un millesimo di euro, mentre 20000 tugrik corrispondono a 5 euro. E questo è già illuminante della situazione economica del paese.

Se girate con il contante, cosa che consiglio assolutamente, un portafoglio non basterà per contenere tutta la carta.

Per rendere l’idea questi sono un milione di tugrik, corrispondenti a meno di 300 euro.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/923/uM977j.jpg (https://imageshack.com/i/pnuM977jj)

A Ulan Bator, potete pagare praticamente tutto con carte elettroniche. Per la nostra esperienza, i bancomat a nostra disposizione, ancorché previamente abilitati alla banda magnetica e quindi all’uso anche fuori dall’Europa, non hanno mai funzionato nei POS. Solo la carta di credito VISA ha funzionato, ma digitando il PIN, non apponendo la firma sullo scontrino come si usa da noi. Non abbiamo sperimentato gli sportelli ATM.

Abbiamo visto che le carte vengono accettate anche nelle piccole cittadine o nei distributori lungo le strade principali e anche in qualche campo tendato, ma non in tutti.

Se proprio siete alla canna del gas, nei campi tendati e negli alberghetti accettano anche euro, ma è sempre l’opzione di riserva, in quanto i prezzi li fanno sempre in tugrik. Con gli euro non riuscirete però a fare benzina, né a pagare nei market.

Noi siamo partiti con un discreto quantitativo di euro che abbiamo, in parte speso come sopra (ma non conviene perché il cambio di volta in volta praticato è abbastanza aleatorio e sempre penalizzante per noi; il resto viene sempre dato in tugrik) e in parte cambiato in banca.

Xaan Bank è l’istituto di credito più diffuso nel paese. Se la filiale effettua il cambio, vedete esposti i tabelloni con le valute; se non ci sono, vuol dire che non cambia. Abbiamo sempre impiegato non meno di 45 minuti per fare l’operazione allo sportello, perché gli euro li controllano uno a uno scartando quelli non perfetti (portateveli nuovi di pacca).

Vi consiglio di chiedere che i tugrik vi vengano dati in tagli da 20000 altrimenti non saprete proprio dove metterli. Ma non è detto che li abbiano, per cui ve li possono dare anche in tagli più piccoli e uscirete con pacchi alti cinque centimetri. In banca cambiano anche tramite carta di credito VISA strisciata allo sportello sempre digitando il PIN.

Mentre facevamo la coda in banca ci siamo resi conto che le operazioni allo sportello fatte dai mongoli sono per importi per noi irrisori, del tipo bonifici da 2-3 euro per intendersi o depositi di 10 euro al massimo. Questa è l’economia reale del paese e reali sono anche le lunghe attese che bisogna fare prima del proprio turno.

Le banche sono aperte dal lunedì al sabato dalle 09:00 alle 13:00 e dalle 14:00 alle 17:00. Gli sportelli ATM restano invece operativi fino alle 19:00. Tenetelo a mente.

POPOLAZIONE E SICUREZZA

La Mongolia è un paese assolutamente e totalmente sicuro. Anzi la popolazione è sempre disponibile e regala grandi sorrisi. Nessuno, al di fuori della capitale, toccherà mai le vostre cose.

A Ulan Bator, la situazione apparente è la stessa anche di notte, ma ci hanno detto di stare attenti per scongiurare il rischio di piccoli furti. Solo nel grande mercato è meglio entrare senza telefono, portafogli, documenti, telecamere e quant’altro perché c’è una moltitudine di gente e i passaggi sono stretti. Il contatto accidentale è costante. Entrateci dunque senza nulla, con le mani in tasca e i soldi che pensate vi servano. Nient’altro.

Il tenore di vita è generalmente basso (o meglio, più semplice del nostro): cellulari per tutti insomma e gente vestita normalmente. Non abbiamo quasi mai visto miserabili, né avuto la percezione di pericolo, in nessuna occasione. Tutt’altro.

LA MOTO

E arriviamo alla scelta più determinante: il mezzo meccanico.

Esprimo subito il mio personalissimo pensiero, anche se verrà criticato.

Credo che affrontare la Mongolia, che prevede circa la metà del percorso su piste in parte nel deserto del Gobi, con un grosso bicilindrico da enduro sia inutilmente faticoso, perché tutto quel peso e quella potenza non servono a un bel niente. Inoltre portarsi dietro 300 e passa chili su terreni vari, cercando di dosare con prudenza il gas, a mio avviso toglie il divertimento e risulta difficile, o comunque non alla portata delle capacità di tutti.

Io, che sono una chiavica a guidare, che non so andare sulla sabbia, né attraversare i guadi, sarei stato in enorme difficoltà. Magari avrei potuto anche farcela, ma sarei stato tutto concentrato a guidare (e a non cadere), faticando a bestia e togliendomi tutta la serenità, il piacere e il divertimento.

Non è questo quello che cerco; l’ho fatto in passato, ma non voglio più ripetere l’esperienza di portare una moto (per me non adatta ed esagerata), dove si va molto meglio con una motoretta leggera, che tanto la potenza basta e avanza. Il comfort diventa secondario, o comunque non indispensabile.

In altri termini – e per me, lo ribadisco - piccola e leggera è meglio di grossa, pesante e potente. Non so se mi sono spiegato: andare a 5 all’ora con un GS, anziché ai 20-30 con una motoretta cinese, non ha alcun senso.

Per dirla brutale con un giesse, salvo rare eccezioni di manico, da ‘ste parti vi muovete gran poco o nulla.

La scelta del noleggio è praticamente obbligata, sia per quanto riguarda il mezzo che il noleggiatore. A Ulan Bator esistono sulla carta vari noleggiatori, ma in pratica tutti i motociclisti finiscono da Cheke Tours (https://www.motorbikemongolia.com), che è in definitiva l’unica opzione praticabile ed è considerato serio e affidabile.

Al di là delle frasi fatte del tipo “la Mongolia si fa con una moto usata dai mongoli per meglio immedesimarsi nel contesto”, che è una grande scemenza, va detto che semplicemente non ci sono alternative. La moto è questa, perché altro non c’è: Shineray Mustang XY150.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/WnRyd1.jpg (https://imageshack.com/i/poWnRyd1j)

Monocilindrica, 150 cc di cilindrata, raffreddamento ad aria, cambio a cinque rapporti, avviamento elettrico e a pedale, freni a tamburo, potenza… beh lasciamo perdere.

Anche i gruppi organizzati italiani, sia quelli assenti quest’anno, sia quelli presenti, noleggiano da Cheke Tours, che dispone di circa quaranta mezzi. Sia quando abbiamo ritirato, che quando abbiamo consegnato, nel cortile c’erano circa 5-6 moto segno che le altre erano tutte fuori.

Abbiamo incontrato, lungo i duemila e passa chilometri percorsi, solo quattro motociclisti spagnoli e tre motociclisti olandesi, uno dei quali arrivato sulle proprie ruote via terra in sella a Yamaha XT660Z Ténéré. Quest’ultimo, a detta dei compagni, faceva una gran fatica a guidarla per via del peso e dell’altezza. Nella capitale abbiamo anche incontrato Daniele Infante (su facebook “Leg in bag” ) in sella alla sua Suzuki V-Strom 1050 XT che però, da quel che ho capito, non si è avventurato sulle piste.

Insomma, se il 100% dei motociclisti gira sulle Shineray Mustang, ci sarà pure un motivo… poi ognuno è libero di cercarsi le rogne che vuole.

Le nostre moto erano del 2019 come risulta dalla carta di circolazione. Tuttavia poco o nulla funzionava. Diciamo che viene fatta si e no la manutenzione essenziale, ma ciò che si rompe e non è indispensabile viene lasciato rotto. Il prezzo del noleggio è bassissimo (13 euro al giorno). Se volete un van al seguito, cosa fastidiosa ma rassicurante su alcune tratte dimenticate da Dio, dovete aggiungere 100 euro al giorno. Cheke Tours organizza viaggi tutto compreso (moto, van, autisti, guida, vitto e alloggio) a 140 euro al giorno, ma non va più nel Gobi perché, mi ha detto, la gente non ce la fa per la fatica accumulata. Sarà…

Questo è il contratto di noleggio.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/OAhexT.jpg (https://imageshack.com/i/poOAhexTj)

E questa è la carta di circolazione.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/Ob5GKX.jpg (https://imageshack.com/i/poOb5GKXj)

In cauzione potete lasciare il passaporto o 600 euro in contanti a moto. Abbiamo scelto questa seconda opzione. Alla riconsegna ci è stata prontamente restituita.

Compreso nel prezzo c’è anche il casco, o meglio vecchi caschi jet cinesi (da lavare bene, per cui non serve che ve lo portiate da casa, alla peggio con 30 dollari ne comperate uno nuovo in città) e gli attrezzi necessari e completi. Per 3 euro vi noleggia borse laterali stagne o sacca da portapacchi. Niente borse da serbatoio.

L’assicurazione non esiste e, se succedono guasti, sono tutti problemi vostri, perché non viene fornita assistenza. Chiari e cristallini dall’inizio.

Noi siamo stati fortunati perché le moto, seppur con i loro limiti, non si sono mai rotte e ci hanno portato di ritorno. Addirittura, sotto la benedizione del Buddha, non abbiamo mai bucato. Non possiamo quindi che parlar bene di Cheke Tours, ma abbiamo letto di piccoli guasti peraltro riparabili on the road seppur con dispendio di tempo e fatica.

COSTI

I voli, come detto, sono costati 1.375 euro a testa; il noleggio 200 euri sempre a testa e 1.125 euri li abbiamo spesi per benza, vitto e alloggio e souvenir. Quindi è un viaggio relativamente economico: su per giù 2.700 euri per 17 giorni, tutto compreso.

Viaggiare in autonomia e senza van con autista al seguito, costa (escluso il volo) circa 1/3 della quota di partecipazione (escluso sempre il volo) chiesta dai tour operator specializzati italiani, che però mettono a disposizione jeep e van, guide e quant’altro utile a rendere la vacanza confortevole. Poi alla fine tutti dormono negli stessi posti (o in posti equivalenti) e tutti noleggiano le stesse moto.

Quindi si tratta di un gran risparmio che rende questo viaggio alla portata economica di molti.

FILES ALLEGATI

Tutto il percorso di viaggio in formato gpx (per navigatori Garmin) e kml (per Google Earth) è scaricabile QUI (https://drive.google.com/file/d/1YUCqns9_5lHrPDNeI_BqpuEZpEwgSbeY/view?usp=sharing). Contiene il tracciato esatto seguito, gli alberghi i campi tendati in cui abbiamo dormito, i ristoranti dove abbiamo mangiato, i distributori di carburante utilizzati e i luoghi visitati.

Tutto questo racconto in formato PDF è scaricabile QUI (https://drive.google.com/file/d/1d2vBQUf0kcEF6wnx2E8_YNBnLMmwhWYr/view?usp=sharing)

Bene. Il pistolotto iniziale è finito. Se siete pronti possiamo iniziare…

SE LE IMMAGINI NON SI VEDONO SU TAPATALK, SCEGLIERE LA VISUALIZZAZIONE WEB DA APP

tirzanello
20-10-2023, 00:54
Grazie 1000! Anzi 1milione.
In solo post hai condensato giorni di ricerche sul web.
Nel 2006 in Liguria incontrai a un semaforo un R100GS con targa americana. Ovviamente stupefatto lo inchiodai immediatamente. Marc, 32 anni, dal New Mexico, stava facendo il giro del mondo in solitaria. Strabilio e lo obbligo a bere una birra insieme per raccontarmi.
Spedita la moto in Giappone, aveva già fatto tutta l'Asia, tutti gli xxxstan e il periplo dell'Africa in un anno e mezzo. Gli restava l'Europa.
Alla domanda quale fosse il paese più bello che avesse visto, indovinate un po? MONGOLIA !!
Da allora è fissa nel mio mirino.
Morirò prima ma non demordo.

Massimo
20-10-2023, 10:02
PROLOGO – 11 AGOSTO 2023
Verona – da qualche parte nel cielo cinese (zero km in moto)


La data della partenza programmata è arrivata. Tutta la giornata è dedicata al lungo trasferimento aereo.

Tutto il mio bagaglio è costituito da un borsone stagno da 90 litri giallo fastidio (lo lascerò in hotel e girerò poi con una sacca stagna da 35 litri fissata al portapacchi) e da una borsa da serbatoio (come bagaglio a mano) per le cose di pronto uso e soprattutto per l’attrezzatura tecnica (caricabatterie, macchina fotografica e telecamera).

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/YZlzIt.jpg (https://imageshack.com/i/poYZlzItj)

La faccio breve, perché tanto non c’è nulla di significativo da raccontare: sveglia alle 4:30 del mattino; treno da Verona a Mestre, dove arriverà allo stesso orario anche Alberto, sempre in treno da Udine; bus navetta fino all’aeroporto Marco Polo di Venezia; solite pratiche per check-in e imbarco su volo Turkish Airlines fino a Istanbul, dove arriviamo puntuali in un paio d’ore.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/923/IQ3dov.jpg (https://imageshack.com/i/pnIQ3dovj)

Qui dobbiamo attendere cinque ore per imbarcarci sulla seconda tratta fino a Ulan Bator, sempre con Turkish Airlines. L’aeroporto della capitale turca dista 50 km dalla città ed è davvero immenso (mi sentirei di paragonarlo a quello di Francoforte). In questo periodo di dispetti reciproci tra l’Europa e la Russia, Istanbul è diventata l’unico crocevia per le destinazioni verso oriente ed è assolutamente all’altezza di reggere l’intenso traffico aereo. Da qui passa praticamente il 100% dei voli per questa parte del mondo, e non solo. Bravi ‘sti turchi: efficienti e organizzatissimi!

Il volo per Ulan Bator parte quasi puntuale, ma il viaggio è davvero lungo e palloso. A mezzanotte voliamo nel cielo cinese dormendo o guardando film.

Gli aeromobili sono confortevoli (nulla a che vedere con le scatolette usate da Ryanair). Offrono più pasti durante il viaggio (quello con la pasta è buonissimo) e da bere a volontà (anche vino in bottiglia). Ogni posto ha a disposizione uno schermo interattivo con contenuti multimediali di vario tipo. Le cuffie e la coperta sono compresi.

Buonanotte…

PROLOGO – 12 AGOSTO 2023
Da qualche parte nel cielo cinese – Ulan Bator (20 km in moto)


https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/923/ipuKcK.jpg (https://imageshack.com/i/pnipuKcKj)

Atterriamo a Ulan Bator alle 7:30 del mattino (ora locale) e velocemente siamo fuori dall’aeroporto, con bagagli, manco a dirlo, al seguito.

L’aeroporto internazionale non poteva che chiamarsi Chinggis Khaan International Airport ovviamente.

Ne esiste un altro più piccolo, ma credo che serva solo i domestic flights. Lo scalo internazionale è comunque piccoletto (ha appena sei gates) e guardando i tabelloni il traffico è davvero scarsino.

Cerchiamo un taxi ufficiale per raggiungere l’albergo, che però non troviamo. Ci si avvicina un ceffo abusivo e dopo una trattativa fatta a gesti, combiniamo per 25 euro, poco più del taxi vero.

Deve fare 50 km (tanto dista l’aeroporto dalla capitale) e ci impiegherà quasi due ore a causa del traffico perennemente congestionato oltre ogni immaginazione.

Francamente non sono riuscito a capire come, con tutto lo spazio libero a disposizione (e quando dico libero intendo proprio vuoto), non abbiano pensato, ‘sti mongoli, di avvicinarsi alla città. Ma tant’è… Lungo la strada il tipico paesaggio mongolo, fatto di colline verdissime e appuntite, ci accompagna da ambo i lati. Poi entriamo nella capitale e lì la musica cambia decisamente.

Devo dire che ci sono numerose arterie ad alto scorrimento, ma solo teorico, perché la moltitudine di auto è davvero spaventosa, per cui tutti sono sempre quasi fermi. Penso a coloro che lavorano e devono attraversare la città da parte a parte una volta al giorno, i quali devono mettere in conto almeno - e dico almeno - quattro ore imbottigliati nel traffico.

La delirante musica di clacson è praticamente ininterrotta dalle sette del mattino all’una di notte, tutti i sacrosanti giorni, festività comprese.

Potete immaginare che le ambulanze non passano perché la gente occupa pure le corsie riservate. Per gli autobus è la stessa cosa. Inoltre aggiungeteci pure il fatto che la precedenza non esiste: te la prendi. Pertanto vedi auto che, ferme al semaforo con quattro corsie per senso di marcia, ovviamente nella corsia più a destra, a prescindere che sia rosso o verde, svoltano a sinistra o, peggio ancora, fanno inversione a U, bloccando tutto e tutti. Ma ho visto anche di peggio e questa è la regola.

Insomma un gran casino e il primo impatto non è dei più incoraggianti.

Ah… quasi dimenticavo: si guida a destra, ma la maggior parte delle macchine ha la guida a destra. Questo perché circolano quasi totalmente auto di seconda mano giapponesi, in testa a tutte Toyota Prius ibride di prima generazione. Moto e motorini quasi inesistenti.

Arriviamo in albergo verso le 10:00 del mattino. Siamo un po’ cotti perché è da più di 24 ore che siamo in ballo. Inoltre siamo anche un po’ storditi dal fuso orario (che qui è di sei ore in avanti rispetto all’Italia).

Abbiamo scelto il Millenium Plaza, che si trova a circa un chilometro e mezzo dalla piazza principale della città e che occupa alcuni dei 15 piani di questo edificio di cristallo.

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Sulla carta sarebbe a quattro stelle, ma abbiamo imparato a toglierne una (anche abbondante) per parametrarlo agli standard europei. La camera doppia con letti separati ci costa 95 euro compresa la prima colazione, ma il check-in prima delle 14:00 costa il 30% in più del prezzo della camera. Non se ne parla.

Facciamo allora un giro a piedi di ambientazione e tentiamo di mettere sotto i denti qualcosa di commestibile: finiamo al Red Restaurant, una sottospecie di pub, in stile pseudo-british adattato al mongolo, con camerieri svogliati, all’interno di un supermercato. Spendiamo pochi euro e mangiamo decentemente.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/922/EJTBxB.jpg (https://imageshack.com/i/pmEJTBxBj)

All’una, presi da pietà, ci danno la camera in anticipo senza maggiorazioni. Ci sistemiamo e scendiamo per organizzare il ritiro delle moto.

Lo spacciatore di moto (a quanto ne sappiamo forse l’unico, e sicuramente il più affidabile) ha pensato bene di stabilire la sua sede in un recinto di legno a 20 km a ovest dalla città, sebbene tutti i suoi clienti arrivino e si sistemino in città. Il posto è talmente imbucato che le signorine alla reception dell’albergo, le quali ci hanno gentilmente chiamato un taxi, manco sapevano dove dovevano farci portare.

Con l’ausilio dell’indirizzo scritto in mongolo e google maps il taxista ha intuito la direzione e ci ha caricati senza proferire parola. Taxi ufficiale ‘sto giro, con tanto di tassametro su app del cellulare. Per vie secondarie e alternative ci porta in zona, ma in prossimità dell’arrivo ha dovuto chiamare più volte il noleggiatore per farsi spiegare il punto esatto: alla fine spendiamo 7 euro per un’ora e mezza di taxi: onesto!

Entriamo dubbiosi nel recinto e lì troviamo due Shineray Mustang 150 nuove di pacca ad aspettarci. No, scherzo, nuove fiammanti un par di palle.

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Alberto le prova e si mostra cautamente entusiasta, o meglio realisticamente rassegnato. Sì, perché le moto funzionano, ma la maggior parte delle dotazioni non funziona: contachilometri, tachimetro, contagiri, spie varie sono completamente morte. Ma è normale, ci dicono, e assolutamente irrilevante. In effetti quel che importa sono i freni, naturalmente a tamburo (che non frenano) e le sospensioni (fatte da due molle e da ammortizzatori minuscoli come quelli dei portelloni delle macchine) praticamente inesistenti. Il motore però si accende e questa è l’unica cosa veramente necessaria.

Entriamo in una yurta dove compiliamo il contratto, versiamo il prezzo del noleggio (13 euro al giorno) e il deposito cauzionale (600 euro, pari al prezzo di acquisto del nuovo). La tizia che gestisce tutta la faccenda ci consegna le carte di circolazione e fine del discorso. Le moto non sono assicurate ed è già tanto che abbiano la targa, perché non è detto.

Come sempre accade in questi casi si parte schizzinosi, ma alla fine del viaggio, se non succedono disgrazie, ci si affezione a ‘sti mezzi da due lire perché, se non si spaccano, sono veramente lo strumento giusto per girare da queste parti.

In effetti, dato che la maggior parte di quel che c’è è già rotto, resta gran poco da rompere.

Inutile pretendere di fare i fenomeni su giesse da 300 kg: se non sei un manico non ci fai veramente niente, oppure triboli all’inverosimile: ci vuole una moto bassa e leggera, anche se spompa. Fine del discorso.

Rientriamo trotterellanti all’albergo impiegando il tempo che serve. Ci rendiamo subito conto che la mia motoretta va meglio di quella di Alberto, nel senso che lui arriva, nel chilometro lanciato, ai settanta, mentre io sfioro i novanta. Per il resto sono due autentici catenacci cinesi fatti di pongo e, se te la regalano, ti fanno un dispetto.

In albergo allestiamo i motorini con prese di bordo supplementari, borse da serbatoio e supporto GPS. Quest’ultimo trova posto in posizione ben visibile e soprattutto ben protetta, attaccato sul portapacchi anteriore. Utilizzo Garmin GPSMAP 67, che si è rivelato un eccellente strumento, robusto e affidabile, ma soprattutto con lunga autonomia (rispetto alla versione precedente, monta batterie al litio non sostituibili, che assicurano due intere giornate in moto senza alimentazione).

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/922/1oEYhH.jpg (https://imageshack.com/i/pm1oEYhHj)

Poi in serata scegliamo di cenare nel ristorante primo in classifica su Tripadvisor, che tuttavia propone cucina indiana. Siamo messi bene se la gastronomia mongola top di gamma non è mongola. Hazara il suo nome. Ceniamo indiano meglio che in india, ma non ci tornerei.

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Dopo cena facciamo un giro in centro per vedere le luminarie. La città resta indecifrabile, ma Gengis Kahn paffuto controlla tutto dalla sua comoda poltrona.

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Domani inizia il test drive preparatorio al giro vero e proprio. Ci addormentiamo con vista panoramica sulla città.

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https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/922/LNlpOt.jpg (https://imageshack.com/i/pmLNlpOtj)

Staremo a vedere…

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Massimo
21-10-2023, 14:28
PROLOGO – 13 AGOSTO 2023
Ulan Bator – Ulan Bator (157 km in moto)

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/922/N4DLBO.jpg (https://imageshack.com/i/pmN4DLBOj)

Le motorette bisogna per forza provarle prima di immergersi nelle steppe mongole. E questo, non tanto per prendere confidenza con i mezzi, che sono di per sé confidenziali data la loro elementare semplicità, ma per cercare di capire se hanno rogne nascoste pronte ad emergere vigliaccamente.

Ad est di Ulan Bator, ci sono alcune attrazioni che combinate insieme uniscono l’utile al dilettevole, nel senso che il test drive ci porterà a vedere una zona turistica (troppo per i miei gusti) abbastanza vicina alla capitale.

Partiamo con comodo e, districandoci nel traffico di questa città assurda, cerchiamo di uscirne in direzione est.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/922/ZDu08G.jpg (https://imageshack.com/i/pmZDu08Gj)

Qui è tutto asfalto e credo che una parte sia addirittura autostrada. Il traffico è palpabile, ma niente a che vedere con quello del centro. Insomma si viaggia, intendiamoci, non a chissà quale velocità, perché i motorini qua si trovano a loro agio intorno ai 50 km/h. Oltre, il pistone ti esce dal serbatoio e si incastra nei denti.

Siamo diretti alla statua equestre di Gengis Khan (all’anagrafe Temüjin Borjigin), il monumento simbolo del Paese, dedicato al grande condottiero (nonché imperatore) che l’ha fondato nel XII secolo, unificando a suon di mazzate le disorganizzate tribù mongole e turche.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/dsrWlH.jpg (https://imageshack.com/i/podsrWlHj)

Si trattava di un impero di mastodontiche dimensioni (si dice il più vasto impero terrestre della storia umana)
che arrivò a comprendere, con i suoi successori, la maggior parte dell'Asia centrale, l'intera Cina, la Russia, la Persia, il Medio Oriente e parte dell'Europa orientale. Una roba grossa, insomma, molto grossa.

Gengis Khan e il suo impero hanno sempre avuto una temibile reputazione: le sue conquiste vengono descritte come distruzioni su larga scala senza precedenti, che causarono immensi cali demografici a causa di stermini di massa e carestie. Insomma non andava certo per il sottile.

La pacchia tuttavia durò poco tempo, perché l’impero venne poi suddiviso in quattro parti e, in una di queste, il successore di Gengis Khan, fondò la dinastia Yuan e diede spazio alla epopea cinese.

Ma torniamo al monumento equestre, interamente in acciaio, che rappresenta Gengis Khan a cavallo. Beh, l’impatto è davvero notevole, anche se, arrivando, lo si intravede proprio all’ultimo: la statua è alta 30 metri e poggia su un basamento circolare alto 10 metri, per cui l'altezza totale del monumento è di 40 metri. Attualmente è la stata equestre più alta del mondo, e lo sarà fino a quando non sarà ultimata quella, a Mumbai, dedicata a Shiv Smarak, che dovrebbe raggiungere i 212 metri di altezza.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/yA9pIw.jpg (https://imageshack.com/i/poyA9pIwj)

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/923/isjTrc.jpg (https://imageshack.com/i/pnisjTrcj)

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/923/N1b83W.jpg (https://imageshack.com/i/pnN1b83Wj)

Pargheggiamo e a piedi ci dirigiamo alla base del complesso. Per pochi spiccioli possiamo prendere in mano aquile al guinzaglio, ma ne vedremo a decine, libere, lungo il percorso per cui non ci facciamo tentare.

Entriamo nel basamento. Alberto si fa subito catturare da una guida mongola, che gli spara un pistolotto infinito di cui ignoro il contenuto, mentre io gironzolo incuriosito.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/923/BZlmX4.jpg (https://imageshack.com/i/pnBZlmX4j)

Un gruppo folk suona e balla. Le donne possono vestirsi con i costumi tradizionali e si fanno immortalare in pose scenografiche.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/QF9guK.jpg (https://imageshack.com/i/poQF9guKj)

Per il resto non c’è altro da vedere, per cui decidiamo di salire dentro la statua, che è cava.

Sbucchiamo sulla testa del cavallo e da lì possiamo ammirare frontalmente e a distanza ravvicinata il bel faccione del simpatico Gengis. Diciamo che la statua è un must have e non si può proprio saltare in un viaggio in Mongolia, dato che dista solo 50 km dalla capitale.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/922/MKFE5C.jpg (https://imageshack.com/i/pmMKFE5Cj)

Torniamo sui nostri passi fino alla devizione per il Parco Nazionale di Gorkhi-Terelj, bello per carità, ma troppo inflazionato turisticamente. Qui infatti hanno costruito resort di lusso con tende gher di lusso, senza il benché minimo criterio e soprattutto senza pesare bene l’impatto ambientale.

Il paesaggio è peraltro attraente e soprattutto verdissimo. La zona è prevalentemente montuosa. La prima tappa è la famosa statua della tartaruga (Turtle Rock), un monolite di granito alto 24 metri che ricorda vagamente l’animale.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/922/MJpIIE.jpg (https://imageshack.com/i/pmMJpIIEj)

Giusto il tempo di una foto e arriviamo, dopo una mulattiera dissestata, al cospetto dell’Aryapala Temple Meditation Center, un tempio buddista appollaiato alla testata di una valletta secondaria. Così, a pelle, non ci sembra così meritevole da raggiungere, anche perché dovremmo sciropparci una lunga scalinata tra i prati. Così ci accontentiamo, da pigri, di guardarlo da lontano.

Proseguiamo verso nord fino al centro turistico principale del parco dove il Terelj Luxury Hotel occupa tutto lo spazio. Inizia lo sterro che ci consentirà di rientrare ad Ulan Bator con un giro ad anello. Abbiamo la netta impressione che questa parte del nostro itinerario sia sconosciuta alla massa dei turisti, perché non c’è proprio nessuno in giro. Eppure il paesaggio è davvero autentico e puro. Qui ci sentiamo finalmente in Mongolia e non al luna park.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/zgYYPd.jpg (https://imageshack.com/i/pozgYYPdj)

Le piste salgono e scendono tra le montagne isolate. Non riusciamo ad immaginare lo sviluppo del percoso che dunque si rivela una sorpresa ad ogni curva o salita. Un paio di villaggi defilati, fatti di casette di legno, sono gli unici segni della presenza umana. Eppure siamo ad una manciata di chilometri dal caos della capitale dove la gente vive ammassata in scatolotti di cemento di venti piani.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/922/o8liCT.jpg (https://imageshack.com/i/pmo8liCTj)

Insomma ci è piaciuta molto questa parte finale dell’itinerario e la consigliamo senza riserve.

Torniamo nel tardo pomeriggio a Ulan Bator. Stasera ci attende una cena sperimentale al The Bull Hot Pot Restaurant, che sta al quinto piano di un grattacielo di cristallo. Veniamo fatti accomodare ad un tavolo in similpolicarbonato trasparente con incorporate zone a induzione invisibili. E’ tutto touch. Si scelgono le zuppe, si fanno bollire direttamente sul tavolo e ci si infila dentro delle specie di spaghetti fatti di non so cosa assieme a dei rotoli di affettato (tipo prosciuto crudo) congelati che, con il calore, si rattrappiscono. Il tutto da afferrare con stramaledette bacchette di legno, che odio. Mah… procedimento mai sperimentato e di dubbia soddisfazione. Abbiamo comunque riempito la panza.

Test drive direi superato. Dai che domani si comincia…

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Massimo
22-10-2023, 19:05
GIORNO 01 – 14 AGOSTO 2023
Ulan Bator - Khogo Khan (285 km in moto)

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/923/6SAsrc.jpg (https://imageshack.com/i/pn6SAsrcj)

Ce la prendiamo comoda e alle 10:00 siamo pronti a partire. Appena usciti dall’albergo entriamo nel traffico di Ulan Bator ancora una volta. Fermi in colonna incontriamo una Suzuki V-Strom 1050 XT con targa italiana. Il tempo di due parole mentre il semaforo è rosso. Scopriremo poi che si trattava di Daniele Infante arrivato in solitaria in Mongolia dopo un lungo viaggio.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/923/rau7pn.jpg (https://imageshack.com/i/pnrau7pnj)

Armati di santa, anzi santissima pazienza, riusciamo a lasciare la capitale in direzione ovest per l’unica strada asfaltata che scorre diritta tra le colline appuntite e verdissime. La guida sarebbe abbastanza noiosa e rilassata, se non fosse per le buche sulla strada che ci tengono belli svegli e reattivi.

Ce ne sono sparse un po’ random e alcune sono talmente profonde che è meglio non finirci dentro. Le motorette trotterellanti vanno una meraviglia, si fa per dire.

Intravvediamo i primi cavalli che fanno il bagno in una pozza poco distante.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/922/00qZEF.jpg (https://imageshack.com/i/pm00qZEFj)

Poi il paesaggio ci ricorda gli sfondi di Windows.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/923/cbJC4e.jpg (https://imageshack.com/i/pncbJC4ej)

Ai margini della strada un pippolotto di stracci colorati attira la nostra attenzione, anche per la statua di una vecchia gobba che sorge li vicino, ma non capiamo cosa sia perché le scritte sono solo in mongolo.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/T76CQO.jpg (https://imageshack.com/i/poT76CQOj)

Dopo un paio d’ore ci fermiamo nel villaggio di Lùn, giusto in tempo per ripararci da un violentissimo temporale che già da un po’ vediamo avvicinarsi. Facciamo benzina e cerchiamo ristoro al Am Tsangav Restaurant. Dentro non c’è nessuno e il menu in mongolo dobbiamo tradurlo per capire le prelibatezze che ci attendono.

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Il villaggio altro non è che una serie di baracche di legno dentro recinti. Un paio di ristoranti poco invitanti e nient’altro. Ma è praticamente il primo centro abitato di una certa consistenza da quando siamo partiti: abbiamo fatto 130 km e questo ci fa capire subito che aria tira in termini di densità di popolazione.

Smette di piovere. Ripartiamo sempre su asfalto

Dopo un’ottantina di chilometri ci fermiamo nei pressi di Ėrdėnėsant, un altro villaggio di catapecchie in mezzo al nulla, attratti dalla puzza di tre porchi che rovistavano tra i rifiuti di un bar chiuso.

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E’ uscito il sole e manca poco per mettere finalmente le ruote sulla terra. Infatti poco distante inizia lo sterro che ci porterà ad un campo tendato nei pressi di alcune formazioni rocciose tondeggianti. La pista scorre sabbiosa tra i cespugli, qualche pozza di fango e niente più.

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Decido di sperimentare la Insta360 montata sull’asta accrocchiata al telaio della moto. Parto a paletta su dossi e buche e, in men che non si dica, spacco l’asta e perdo la telecamera.

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Fortunatamente la ritroviamo intatta perché è stata sbalzata sulla sabbia, ma l’asta è irrecuperabile. Studieremo qualche soluzione alternativa. Inizio proprio alla grande, direi.

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Arriviamo in breve al Khugnu Khan Mountain Camp, che si estende alla base delle rocce. Il cielo è limpido e tra poco il sole scenderà dietro le montagne.

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Qui impariamo subito che il prezzo fisso non esiste, ma viene fatto a seconda dell’estro del momento o della nazionalità del viaggiatore. Un ceffo che parla mongolo, ci manda da una tizia, la quale ci dirotta su un altro personaggio che infine ci fa parlare con la capoccia. Con lei combiniamo il prezzo (circa 35 euro per la mezza pensione) e ci facciamo indicare la tenda assegnataci.

L’operazione sarebbe elementare se solo l’addetta sapesse contare, ma non è così: la boss aveva detto “number 7”, ma finiamo alla number 9 e poi alla number 11. Ad ogni numero sbagliato l’addetta tornava dalla boss e si faceva ripetere il numero…. dai e dai alla fine arriviamo alla tenda giusta.

I bagni sono puliti e questo è già un buon inizio, l’acqua poco più che tiepida. Abbiamo poco tempo perché alle 20 si cena così così in una bella sala di legno.

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Andiamo a dormire, come si dice, sotto una coperta di stelle.

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Siamo davvero in un bel posto e siamo felici.

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Attentatore
22-10-2023, 20:13
bello.......

stino
23-10-2023, 09:42
Stupendo !

Toto4
23-10-2023, 10:15
Grazie di condividere , molto prezioso.

Fulton Spulvrazòun
23-10-2023, 13:31
Molto interessante! Complimenti per lo spirito di avventura e lo stile con cui condividi questa esperienza.

gspeed
23-10-2023, 18:31
Complimenti Massimo!!! Spirito, pianificazione, foto... bellissimo !!!!

Massimo
23-10-2023, 18:40
GIORNO 02 – 15 AGOSTO 2023
Khogo Khan – Kharkhorin (116 km in moto)

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Splende il sole sul nostro accampamento e ce la prendiamo comoda perché la giornata prevede poca strada.

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Ripercorriamo a ritroso l’ultimo tratto della pista di ieri e poco dopo ne imbocchiamo un'altra in direzione sud-ovest che ci porterà in una zona acquitrinosa. O meglio la pista, sempre sabbiosa, avvicina una catena di basse dune che però si trovano oltre una specie di fiume che sembra un lago poco profondo.

Non sappiamo se dobbiamo attraversarlo (cosa che eviterei volentieri di fare) o se invece possiamo restare all’asciutto…In effetti potremmo, ma Alberto, quando vede l’acqua non capisce più una fava e dunque trova il modo di bagnarsi comunque.

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Oltre lo specchio d’acqua le dune giocano con il loro riflesso. Sembrano quasi sospese, irraggiungibili, eppure sono lì ad attenderci, ma non è ancora giunto il momento.

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Mentre siamo lì ad ammirare il panorama, arriva Gigetto, un giovane nomade di nemmeno dieci anni che, alla guida di una Shineray Mustang governa orgoglioso la sua mandria di bestiame. Qua si impara a cavalcare a tre anni, si prende la patente della moto a nove e alla fine si impara a guidare la macchina. La patente credo non serva, così come il casco.

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In quel mentre arrivano quattro spagnoli di ritorno dal Gobi, con tanto di trofeo raccattato in mezzo alla sabbia, quella sabbia che ci attende tra 1000 km. Devo ammetterlo: il parabrezza cornuto l’ho invidiato parecchio.

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Il luogo è davvero molto bello e ci lasciamo tentare dalla vanità di immortalarci in foto plastiche. Anche la Mustang, bella ignorante, fa la sua porca figura.

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https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/5iCsUE.jpg (https://imageshack.com/i/po5iCsUEj)

Riprendiamo la pista, sempre sabbiosa, fino a raggiungere l’asfalto, che seguiamo per poche centinaia di metri, giusto il tempo di dirigerci verso le dune, che ora ci si parano proprio davanti. In teoria l’accesso sarebbe interdetto da una sbarra, ma ovviamente ce ne freghiamo.

Le dune si estendono per una lunghezza di 80 km complessivi e sono chiamate Bayan Gobi o Elsen Tasarkhai. La parte in cui ci troviamo è nota come Khugnu Tarnyn Els, mentre la parte a sud della strada asfaltata è detta Mongol Els. Al di là della toponomastica, le dune sono piuttosto modeste, niente a che vedere con quelle che troveremo nel Gobi, ma sono comunque un ben parco giochi per aspiranti fenomeni.

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Alberto se la cava benone, mentre io mi impianto subito. Comunque non c’è pericolo di farsi male con le nostre ridicole motorette e, visto che abbiamo tempo, ci godiamo una mezz’ora di acrobazie.

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In giro non si vede nessuno, a parte un’aquila (una delle tante che incontreremo) che dall’alto pesa la mia inettitudine dakariana.

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Bene la ricreazione è finita. E’ ora di rimettersi in marcia. Da qui alla nostra destinazione ci attende, in teoria solo asfalto.

Dico in teoria perché dopo pochi chilometri veniamo attratti da un gruppo di stupa senza nome che giacciono appollaiati su una collina. E siccome, per raggiungerli, bisogna imboccare una pista che si arrampica sul cocuzzolo, quasi senza nemmeno accorgercene, ci ritroviamo di nuovo con le ruote sulla terra.

Tira vento, il cielo è terso e la vista spazia a perdita d’occhio. A proposito di vento, Alberto ha un attacco di meteorismo e si mette a fare ioga.

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Mentre io mi allontano prudenzialmente.

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70 km ci separano da Kharkhorin, l’antica capitale dell’impero mongolo, oggi un paesotto di meno di 10.000 abitanti. Da qui in avanti sarà tutto comodo asfalto.

La strada fila diritta tagliando le modeste colline spelacchiate e noi ci sentiamo liberi in tutto questo spazio. La Mongolia offre spazi davvero sconfinati e asfalto talvolta in eccellenti condizioni, come in questo tratto finale di strada.

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Ci promettiamo di arrivare a destinazione senza ulteriori divagazioni, ma ancora una volta cediamo alla tentazione delle steppe incontaminate che si perdono a vista d’occhio ai margini del nastro asfaltato. Basta poco, una pista, poco più di una linea, e ci ritroviamo di nuovo sulla terra, o meglio sull’erba.

E così riparte la giostra: guidiamo a caso, disegnando cerchi e forme indefinite su queste praterie. Ci incrociamo, divaghiamo, insomma ci sentiamo straordinariamente bene.

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Siamo felici, veramente felici… e io un po’ anche ebete.

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Adesso però basta. Diritti fino a Kharkhorin. Facciamo le persone serie.

Arriviamo a metà pomeriggio e subito ci mettiamo alla ricerca di un campo tendato per sistemarci. I campi sono tutti dislocati ad ovest della città nei pressi di una vasta prateria bagnata dal fiume Orkhon, il più lungo di tutta la Mongolia. Al termine dei suoi 1124 km, si immette nel fiume Selenge, che a sua volta va a finire nel Lago Bajkal. La Valle dell’Orkhon (o Orhon) è inclusa nella lista dei patrimoni dell'umanità.

I campi gher sono a caccia di clienti, perché a quest’ora sono vuoti. Eppure ci sparano cifre assurde che seccamente rifiutiamo. Quindi proviamo nell’albergo più lussuoso della città, ma anche lì le richieste sono improponibili.

Ma come è possibile, dato che in Mongolia, da quel che abbiamo finora sperimentato, la vita a Ulan Bator costa la metà rispetto all’Italia e, nel resto del paese, un terzo o anche meno?

Abbiamo l’impressione che vogliano provare… a farci fessi, ma non ci riusciranno. A forza di cercare capitiamo infatti da Gaya's Guest House: un recinto con un micro campetto tendato e fabbricato con camere, gestito da una mongola baffuta peraltro molto gentile. Il prezzo è corretto e ci sistemiamo nella guest house che costa uguale alla tenda.

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Intendiamoci, la camera non è poi un gran che, piuttosto minimal a dirla tutta, ma per noi va più che bene. E poi la colazione è compresa. Solo i cessi hanno le porte stile saloon, ma le docce hanno l’acqua calda. O meglio avranno l’acqua calda, ma solo dopo le 18:00.

Vi ricordate il temporale che ieri abbiamo mancato per un pelo? Ebbene, quel temporale, qui ha divelto un traliccio dell’alta tensione e tutto il paese, compresi i campi gher esosi e l’hotel super caro, sono senza elettricità. Zero a zero palla al centro per tutti, belli e brutti.

Alle diciotto la mitica Gaya come promesso attacca il generatore e anche stasera la doccia è assicurata.

Neanche a farlo apposta, bello profumato, trovo un bel gruppetto di casalinghe tirate a festa nel cortile, pronte a farsi immortalare nella foto ricordo, di quella che probabilmente è una rimpatriata delle medie. Mi aggrego al fotografo ufficiale e scrocco una foto anch’io.

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L’attrattiva principale di Kharkhorin, l’antica Karakorum (capitale dell’impero mongolo per appena trent’anni) è un antico monastero buddista: Erdene Zuu (che significa “cento tesori”) è il suo nome.

Si tratta di un complesso di forma quadrata con un perimetro di 1200 metri, costruito nel ‘500, con le pietre dell’antica capitale di 300 anni più vecchia. La cinta muraria è caratterizzata dalla presenza di 108 stupa (il numero non è sparato caso, perché corrisponde ai grani del rosario buddista). Si tratta di una struttura immensa, tant’è che, ai tempi d’oro, ospitava oltre 60 templi e 1000 monaci.

A dare una ridimensionata ci hanno pensato i russi, che, nel 1939, devastarono tutto e sterminarono i monaci. Tutto ciò senza alcun comprensibile (per noi) motivo. La pensata fu di Stalin ovviamente. Ora comunque è un museo a cielo aperto, anch’esso patrimonio UNESCO.

Entriamo. Dentro è pressoché vuoto. Lungo le mura vediamo strane figure che simulano un combattimento e donne vestite a festa. Magari c’è la sagra della polenta taragna…

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Qualche tempio è rimasto in piedi e, in punta di piedi ci intruffoliamo all’interno. Dentro non si può fotografare, ma è il divieto, si sa, è un’istigazione a delinquere.

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I templi sono frequentati anche da autoctoni in gita della domenica. Alcuni poi li ritroveremo dentro un cortile dove si sta celebrando una cerimonia.

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La tizia qua in centro alla foto qui sotto, miss condominio, non sa ancora cosa le aspetta.

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E cioè una bella palpata di chiappe.

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Apperò sti mongoli.

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In mezzo all’immenso recinto c’è un grande stupa e, sparsi in giro, dei pippolotti colorati che secondo me, lasciano perplessi anche i mongoli… almeno questi due.

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Fuori dal tempio, anzi, proprio davanti, stanno finendo di costruire una gigantesca piazza con negozi nuovi di stecca. Dovrebbe servire a rilanciare l’indotto turistico del luogo, ma manca la strategia commerciale, perché i negozietti appena aperti, vendono tutti le stesse paccottaglie cinesi. Sono lo stesso negozio replicato ad oltranza. Diversificare la merce sarebbe una soluzione semplice… ma con calma ci arriveranno.

E’ quasi l’ora del tramonto. Saliamo in moto e ci arrampichiamo per una pista scassata su per una collina, dove sorge il Monumento per gli Stati Mongoli, un’oscenità celebrativa costruita nel 2004.

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Fin quassù non si viene per ammirare l’obbrobrio, ma il panorama sulla valle dell’Orkhon, che al tramonto è davvero notevole. Il fiume sembra quasi d’argento e le colline si accendono di verde.

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E, con questa luce, anche le nostre motorette sembrano scintillanti.

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E Kharkhorin, dall’alto, ci appare per quel che è: una distesa di catapecchie di legno e poco più.

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In un attimo è buio e ci mettiamo alla ricerca di un ristorante. Sulla carta ce ne sarebbero molti, ma sono tutti vuoti o chiusi. Ci infiliamo dentro a quello che ci sembra meno peggiore degli altri: il nome davvero rimane un mistero e manco è segnalato su google maps.

Ci portano un tagliere lungo un metro con sopra carni varie e verdure. Posto laido ma tutto buono ‘sto giro.

Ho dimenticato di dirvi che dal pomeriggio abbiamo sempre girato in città e dintorni senza casco e senza documenti, giusto per stare leggeri. Quando ho chiesto un’informazione ad un poliziotto, questo non ha fatto una piega. Tutto normale quindi.

Normale un par di palle, perché all’uscita dal ristorante, in piena notte, lungo la strada per tornare alla guest house, finiamo in pasto ad un carosello di lampeggianti blu: un posto di blocco della polizia con tutti i crismi e in grande stile. Ovviamente parlano solo mongolo, ma intuiamo che vogliono patente (che non abbiamo), passaporto (che non abbiamo) e carta di circolazione (che non abbiamo). E ci fanno segno che serve, o meglio servirebbe, il casco.

Ovviamente non gli diamo niente di quel che chiedono, semplicemente perché non ce l’abbiamo. Con google translate parte quindi una serie di botte e risposte, del tipo “serve il casco”…”ma come, prima un vostro collega ci aveva detto che è lo stesso”… “servono i documenti”… “li abbiamo in albergo perché il noleggiatore ci ha detto che andava bene così”.

Eppure la gente del posto poco prima ci faceva cenno che non avevamo il casco.

Alla fine i pulotti si sono dovuti arrendere all’evidenza e tutto è finito a tarallucci e vino con un “benvenuti in Mongolia e buon viaggio”. Tanto casino per niente.

Sarei quasi tentato di riprovarci al prossimo posto di blocco perché è stato troppo divertente.

Incomincia a piovigginare, domani mettono brutto. Staremo a vedere.

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cacciatore
23-10-2023, 23:47
Complimenti, bel viaggio e simpatico report

Massimo
24-10-2023, 18:15
GIORNO 03 – 16 AGOSTO 2023
Kharkhorin - Orkhon Valley (139 km in moto)

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/923/msYzFQ.jpg (https://imageshack.com/i/pnmsYzFQj)

Ha piovuto tutta la notte e piove tuttora. E pure tanto. E’ impossibile mettersi in marcia, così decidiamo di aspettare. Alle 10:00 la situazione non cambia, così proviamo cautamente a partire, perché, diversamente, non riusciremmo ad arrivare in tempo.

L’intenzione originaria era di percorrere la sinistra idrografica del fiume Orkhon, in modo da poter visitare, più o meno a metà strada, il monastero di Tövhön Hiid, che se ne sta appollaiato sulle montagne incastonato sotto una parete rocciosa. La pista, tuttavia, prevede alcuni guadi e tratti in prossimità del greto del fiume: francamento non sappiamo se, con tutta questa pioggia, siano praticabili.

Pertanto accantoniamo prudenzialmente l’idea, per cui il monastero resta dov’è e ci accontentiamo delle foto che circolano in rete, tipo questa.

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/922/BpafNC.jpg (https://imageshack.com/i/pmBpafNCj)

Col senno del poi, abbiamo fatto bene, data la quantità di fango che abbiamo incontrato su una pista alternativa più facile, che è poi quella che seguono quasi tutti.

Da Kharkhorin ci immettiamo sulla strada asfaltata che, con un ampio giro, dapprima in direzione sud-est e poi decisamente sud ci porterà fino al villaggio di Hužirt. Piove davvero forte e tira vento. Fa freddo. Il traffico è scarso ma le buche sulla strada piene d’acqua sono un bel problema, perché non sono sempre evitabili e non si capisce quanto siano profonde.

A Hužirt smette fortunatamente di piovere; si tratta più che altro di una tregua, perché di lì a poco riprenderà anche se meno intensamente. Ci ripariamo sotto un distributore che ha finito la benzina, mentre cerchiamo di capire dove attacca la pista che abbiamo deciso di percorrere.

La cosa non è affatto semplice, perché stanno costruendo la strada e il tracciato è chiuso. Iniziano i tentativi: guadiamo un fiume e cerchiamo di risalire la massicciata della strada in costruzione, ma siamo costretti a desistere; proviamo allora da un’altra parte, ma nemmeno da qui si passa; terzo tentativo, altro guado, ma niente da fare.

Alla fine entriamo in paese e districandoci per le strade sterrate in mezzo alle baracche di legno, e dopo una buona mezz’ora di tentativi, troviamo il bandolo della matassa intercettando la pista più avanti. Ho detto pista, perché il sedime della nuova strada è ancora intransitabile.

Siamo nella valle dell’Orkhon che è bellissima e verdissima nonostante il tempo inclemente. Davanti a noi un pastore nomade in sella alla sua Shineray Mustang corre spensierato su terreno libero. Evidentemente sa qual’è il terreno migliore su cui guidare. Lo seguiamo sereni e baldanzosi, fino a quando ci accorgiamo che sta andando in una direzione diversa dalla nostra

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/7jDRBH.jpg (https://imageshack.com/i/po7jDRBHj)

Peccato, la pacchia è finita. Riprendiamo la pista che alterna tratti ghiaiosi a lunghe e profonde pozze di fango, quello denso e traditore. In una di queste Alberto perde il controllo e si trova per terra, fortunatamente senza conseguenze. La moto tuttavia non gira più bene, è un po’ spompata, ma non capiamo la causa.

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Più avanti una mandria di cavalli, governata da un pastore a cavallo, ci attraversa la strada. Decido di chiedere aiuto. Lui gentilmente si ferma, mi affida l’animale porgendomi le redini e si mette a controllare la moto di Alberto. Una regolazione di qua e una di là e la moto torna perfetta: era la leva dell’aria che cadendo si era inceppata.

Restituisco il cavallo, che comunque non aveva nessuna intenzione di farsi tenere da me, e ripartiamo.

In lontananza vediamo due pullman turistici. Sì, avete capito bene due pullman su queste marogne. Avanzano lentissimamente. Sono praticamente quasi sempre fermi e quando si muovono dondolano da ogni parte, fino quasi a cappottarsi a causa del terreno sconnesso.

Arriviamo ad un guado, non molto profondo ma incassato nel terreno. Cerchiamo il punto migliore dove passare proprio nel momento in cui arrivano i pullman, che nella risalita cominciano a perdere aderenza e mettersi di traverso. Francamente non capisco cosa ci facciano in mezzo a tutto questo fango.

Più avanti la pista si alza parecchio rispetto al greto del fiume Orkhon. Qui c’è un punto panoramico dove si fermano tutti. Il colpo d’occhio ci piace. Ora pioviggina soltanto.

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La pista da qui in avanti è piuttosto sconnessa e piena di fango, così decidiamo di seguire altre piste più asciutte che tagliano le colline più a monte. Tutto bene, se non fosse che sono veramente inclinate e l’aderenza non è il massimo. Ma almeno evitiamo tratti più malmessi (e parecchio lunghi) dove si fatica a stare diritti per i solchi di melma profonda scavati dai camion: insomma è tutta una pantanaia di notevoli proporzioni e le motorette hanno ormai accumulato una tale crosta che fatichiamo a riconoscerne il colore.

Tutto questo ben di dio, finisce nel villaggio di Bajan-Ôndôr, altro agglomerato di casette di legno in mezzo al nulla. Riprende l’asfalto, ma è solo un’illusione dato che finisce dopo qualche centinaio di metri.

Dobbiamo superare il fiume Orkhon su uno dei rari ponti degni di questo nome. Inizia un maledetto toulé ondulé in direzione nord su terreno duro che ci accompagnerà per una cinquantina di chilometri buoni. Arriviamo quindi nei pressi di un altro ponte, quello che avremo dovuto superare se avessimo percorso la traccia che ci eravamo prefissati. Ora ci dirigiamo decisamente in direzione ovest sempre sulla destra orografica del fiume. La pista diventa a fondo terroso compatto e si prosegue più agevolmente. Ci avviciniamo al fiume e incontriamo cavalli liberi.

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Optiamo per la guida libera sull’erba, senza alcuna presenza umana nei paraggi. Il cielo è sempre coperto e carico d’acqua, ma è la Mongolia più pura che potessimo immaginare.

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Accolti da un paesaggio bellissimo arriviamo a Ulaan Tsutgalan Waterfall, una scenografica cascata. Qui il fiume Orkhon ha scavato un anfiteatro roccioso da cui precipita una cascata di una ventina di metri. Si tratta di una delle mete più pubblicizzate di tutta la Mongolia e c’è addirittura una zip-line gestita da quattro scappati di casa, che però non proviamo.

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C’è da dire che poco prima di giungere alla cascata è possibile, per un sentierino roccioso ma facile, scendere a piedi fino al greto del fiume ed arrivare alla base del vorticoso salto.

Uno scoiattolo ciccione (o una bestia simile) esce dalla sua tana a guardare che succede. Scommetto che qualche aquila l’ha già adocchiato…

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Esce un po’ di sole. Ormai siamo in dirittura d’arrivo e ce la prendiamo comoda.

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La pista volge ora in direzione sud sempre tra i prati e poco dopo piega in direzione est. Il cielo torna a scurirsi. Arriviamo al campo che avevamo scelto: Khurhree Tour Camp. Ben tenuto con una quindicina di tende, qualche casetta e un fabbricato nuovo come ristorante. I bagni sono pulitissimi e l’acqua è bollente. Le tre figlie della padrona sono sempre con la ramazza in mano e tengono tutto lindo e profumato.

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Parcheggiamo le moto a fianco di un Uaz, un monumento a quattro ruote motrici da queste parti. Dove noi viaggiamo a 30 km/h gli Uaz filano ad oltre 90 km/h incuranti di buche, dossi, sabbia e fango.

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Siamo a 1800 metri di altitudine e fa freschetto. Ci accendono la stufa che, in men che non si dica, alza la temperatura a livelli insopportabili. Peccato che la legna d’importazione cinese con cui è alimentata (la Mongolia praticamente non ha alberi) abbia una durata di pochi minuti… e così ci ritroviamo al freddo.

Ricarichiamo e saliamo a 35 gradi. Poi scendiamo a 10. E così via.

Alberto è stato nominato fuochista ufficiale, mentre io stendo la biancheria, che si asciuga in un batti baleno.

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Siamo costretti a tenere la porta spalancata per stemperare la botta di calore, mentre nel cielo le nuvole lasciano via via spazio al sereno.

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Si accendono i colori del tramonto e compare per un attimo un sottile arcobaleno. Ci troviamo in una piana erbosa circondati dalle montagne. Ci sentiamo al sicuro, contenti per la bella giornata trascorsa. Questi spazi così vasti non disorientano, ma accolgono.

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Arriva l’ora di cena, che non sarà per nulla memorabile: ci servono una specie di piatto con una montagna di simil-fettuccine con verdura e carne secca stracotta. Per dargli sapore dobbiamo innondarlo di salse dai colori e sapori improbabili, che ci servono in flaconi di plastica tipo quelli del bagnoschiuma. Sopperiamo con arachidi in scatola e ci infiliamo sotto le coperte.

Mi accorgo solo ora di essermi ustionato la faccia. Come è possibile visto che ha piovuto tutto il giorno? Vabbè troveremo una soluzione…

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Domani ci sarà bel tempo e non vediamo l’ora di rimetterci in marcia. La strada verso il Gobi è ancora lunga.

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Il Giova
24-10-2023, 19:08
Ricordo perfettamente quando in transiberiana stanno per arrivare ad Ulan Bator ed è piovuto e beccano un tratto di pista infangato e cadono ripetutamente e le imprecazioni di Carlo Mascarin… bel report e belle foto complimenti ma troppa fatica per i miei gusti

Massimo
25-10-2023, 18:29
GIORNO 04 – 17 AGOSTO 2023
Orkhon Valley - Arvaikheer (148 km in moto)


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Oggi splende il sole e siamo pronti a metterci subito in marcia carichi a molla.

L’idea originaria era quella di percorrere una pista alternativa (che so essere stata affrontata da qualche gruppo organizzato italiano), ma veniamo dissuasi dal gestore del campo e da un manipolo di autisti, che ce la descrivono come difficile e di alta montagna. Ci fanno capire che non è proprio il caso nemmeno di provare, tant’è che loro non ci pensano neppure lontanamente ad andarci con gli Uaz.

Hanno reso perfettamente il concetto…

La molla si allenta e, tronfi di quel minimo senso di giudizio che ci è rimasto, a orecchie basse, decidiamo di fare il percorso classico, anche se prevede di ritornare in gran parte sui nostri passi, ossia di ripercorrere praticamente quasi tutto il tracciato di ieri. Non sarà ovviamente così, ma ci arrivo tra un attimo.

Partiamo, dicevo, ma non prima di essere salutati dalle tre figlie del gestore del campo, che ci hanno premurosamente accudito durante il nostro soggiorno. Quella che comanda tutto è ovviamente la piccoletta in mezzo.

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Prendiamo quindi la pista principale, che in direzione est dovrebbe riportarci al villaggio di Bajan-Ôndôr, quello dove ieri abbiamo attraversato il ponte sul fiume Orkhon. Quella di oggi è tuttavia una pista diversa rispetto a quella di ieri, almeno per ora.

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La perdiamo quasi subito e ci troviamo incasinati in un labirinto di rocce, collinette, avvallamenti e boschetti. E’ tutto un tentativo dietro l’altro per cercare i passaggi meno ostici. In realtà ci stiamo divertendo assai, anche se perdiamo una montagna di tempo per fare una manciata di chilometri soltanto.

Tutto ‘sto baito è dovuto alla necessità di attraversare un fiume, che non ha né ponti né guadi banali come piacerebbero a me. Alla fine, a forza di cercare, troviamo quello che, secondo noi, è il punto più facile per attraversare. L’acqua è bassa ma le pietre sotto sono grosse come meloni.

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L’incognita è superata. Ora ci attende una pista più decifrabile, anche se bella impantanata.

Fango traditore! Alberto scivola di nuovo e stavolta si fa male ad una caviglia e squarcia pure lo stivale. Calma e gesso: poteva andare peggio. Con cautela ci rimettiamo in marcia.

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Il percorso è comunque bellissimo, un continuo saliscendi tra le anse del fiume. Più avanti superiamo altri due guadi e, infine, entriamo nel villaggio di Bajan-Ôndôr.

Facciamo subito spesa all’Esselunga esibendo orgogliosi la tessera dei punti fragola, che vale anche qui.

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Il traffico è scarsino, ma ogni tanto passa un mongolo motorizzato avvolto nel suo pastrano tipico.

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Facciamo benzina all’unico distributore e imbocchiamo la stessa pista di ieri, che ripercorriamo a ritroso, tra il solito fango, per una trentina di chilometri scarsi.

Circa a metà strada ci imbattiamo, quasi per caso, in un sito risalente all’età del bronzo, segnalato da un tabellone scritto solo in mongolo.

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Si tratta di 40 antiche tombe quadrate con raffigurazioni varie. Quattro sassi direte voi, e lo dico anch’io, però antichi per davvero, sperduti in questo posto dimenticato da dio. Il luogo si chiama Temeen Chuluu e manco è segnato su google maps.

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Come anticipato all’inizio l’idea, seppur saggia, di ripercorre tutta la prima parte della pista di ieri ci rosica parecchio. E infatti… decidiamo di essere creativi.

Giusto davanti a noi si apre, per puro caso, sulla destra in direzione sud, una valletta secondaria, e trasversale rispetto a quella principale del fiume Orkhon, che si arrampica in mezzo al niente.

La tentazione è forte e ci lusinga: bene, infiliamoci in questa valletta e vediamo che succede.

La pista inizia a salire tra i prati, senza tregua. Sale, sale e sale ancora. Non abbiamo idea fino a quando, ma si prosegue benone perché il toulé ondulé tanto odiato, fortunatamente, scarseggia.

Qua e là c’è qualche rarissima tenda con vacche al pascolo. La densità di popolazione qui è sotto lo zero. Il paesaggio offre scenari sempre diversi, in evoluzione diciamo, tra un guado e l’altro.

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Porca malora, quasi senza volerlo abbiamo trovato un posto davvero bellissimo… e si sa, i posti belli talvolta sono i più imbucati.

Ogni tanto ci fermiamo…a guardare il niente, il che, se ci pensate, è una grande fortuna, nemmeno immaginabile a casa nostra. Qua invece è tutto grande, tanto, esagerato, infinito.

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Ad un certo punto si apre una valle immensa perfettamente pianeggiante, dove razzolano greggi di pecore obese. Apriamo il gas e ci sfoghiamo fino allo sfinimento. Beh… apriamo nei limiti di quel che si può con i nostri bolidi cinesi.

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Non abbiamo la benché minima idea di come si chiami questo posto, ma ci importa il giusto, anzi zero. E’ bellissimo e questo ci basta e avanza. Alberto si ferma anche lui a contemplare la splendida scenografia, ma la caviglia non è per nulla a posto. E’ forte e determinato, stringe i denti e non si lamenta.

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Più avanti siamo costretti a lasciare la comoda pista che pigramente stiamo seguendo perché, all’improvviso, entra in un recinto di cui non vediamo la fine. La cosa è stranissima perché qua di prati ce n’è per tutti. Poco dopo un guado insidioso sul torrente incazzato ci disorienta. Non riusciamo a trovare il passaggio migliore. Come per magia arriva però un mongolo motorizzato in senso opposto, il quale, manco a dirlo, conosce perfettamente il punto debole del fiume e passa a manetta umiliandoci. Non ci resta che imitarlo ovviamente. E anche questa è fatta. A culo, ma è fatta.

La pista riprende a salire. L’ambiente si fa ancora più selvaggio. Altri guadi da superare. Poi ci accoglie un’altra prateria perfettamente a livello. Una mandria di cavalli staziona pigramente proprio dove dobbiamo passare noi.

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Con tutto ‘sto spazio proprio lì dovevano mettersi? E loro potrebbero dire: con tutto questo spazio proprio di qua devi passare? Si, proprio di qua, perché sono strunz.

Apro il gas e mi ci filo in mezzo, solo per il piacere di vederli schizzare in tutte le direzioni. Gioco innocente per bambino deficiente, ma solo per ammazzare la monotonia della giornata.

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Gli equini comunque non fanno una piega e subito dopo tornano a parcheggiarsi in mezzo alla strada. In realtà, qui si respira davvero il senso di libertà assoluta: si può passare dove si vuole, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Lo spazio, impressionante anche per menti predisposte, quasi stordisce, lascia smarriti e, allo stesso tempo, eccitati. Bisognerebbe provarlo perché a parole si fatica a rendere il concetto. E’ tutto così vuoto, ma pieno, immenso, straordinariamente immenso.

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Sono uno stordito. Lo so e si vede. Ma portate pazienza, dai.

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L’ultima salita ci porterà su una specie di passo dove sta, buttala lì, una discarica di pietre e rifiuti. Almeno a prima vista. In realtà è una specie di monumento ruspante di ex voto, dove quei pochi che passano da queste parti, lasciano un oggetto per loro significativo.

Buttati lì in mezzo ai sassi, ci sono una stampella, una chiave inglese, una bottiglia di birra e altre chincaglierie… forse per ringraziare non so chi di una guarigione, o di una riparazione ben riuscita, o ancora per essere usciti dall’alcolismo. Non lo sapremo mai.

Io, che non ho niente da lasciare, salgo sulla discarica e guardo l’orizzonte… in realtà non è vero, ma non posso scriverlo.

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D’ora in avanti sarà tutta discesa che ci porterà infine sull’asfalto, tra l’altro in eccellenti condizioni, oserei dire quasi nuovo di pacca. Ad avere potenza si potrebbe correre senza ritegno, invece ci dobbiamo accontentare dei 50 all’ora, ma non per nostra inettitudine.

Arriviamo dunque trotterellanti alla periferia di Arvaikheer, una cittadina di circa 20.000 abitanti e capoluogo di regione. E’ il primo centro abitato di una certa importanza che incontriamo dopo la capitale. Poco prima del ponte sul fiume Ongi (che ci creerà non pochi problemi domani), ci sta il casello per il pagamento del pedaggio.

Qui i caselli sono fatti a mo’ di arco di trionfo, con tanto di timpano e pilastri dorici. Le moto pagano solo a sentimento del casellante, che qui però è una casellante e non ci fa pagare. I caselli sono quasi sempre vicino ad una stazione di polizia.

Nel gabbiotto, oltre alla bella casellante, ci sta un poliziotto che evidentemente cercava di tacchinarsela. E per fare lo splendido, appena ci vede arrivare, si precipita fuori, tutto tronfio, impugnando il manganello luminoso che da queste parti sostituisce la classica paletta.

Se vuoi fare il fenomeno, ragazzo mio, devi anche saperti spiegare e farti capire, soprattutto se fermi due non-mongoli. Parte il solito cinema: vuole la carta di circolazione, vuole la patente, vuole il passaporto, vuole la tessera dei punti fragola, vuole… non lo sa nemmeno lui, e soprattutto non lo sappiamo nemmeno noi dato che emette solo grugniti gutturali incomprensibili.

Io non mi scompongo, manco spengo il motore, mentre Alberto si sforza di dargli qualcosa… anche gli scontrini del supermercato. Alla fine, presi da pietà, gli diamo le nostre patenti internazionali. Naturalmente non le ha mai viste in vita sua, né - immagino - nessuno gli ha mai spiegato che gli occidentali solo quella hanno in forza dei trattati internazionali e bla bla bla.

La guarda perplesso. Per forza l’ha aperta capovolta e al contrario. Non capisce cosa sia. Torna nel gabbiotto e prende la sua patente per farci capire che, secondo lui, dovremmo averne una uguale anche noi. Mi scappa da ridere. Alla fine gli prendo dalle mani le nostre patenti e gliele apro alla pagina giusta, quella dove può leggere anche lui, sebbene lo abbiano evidentemente bocciato in prima asilo.

Si arrende e, con la coda tra le gambe, ci lascia andare. E vorrei ben dire: se sei tordo cambia mestiere… e lascia perdere la casellante, la quale, se ha visto quanto sei torsolo, non te la darà mai.

Arriviamo in città e finiamo diritti nel cortile del faraonico Arvaikheer Palace Hotel, un mille mila stelle nel mondo della fantascienza. Da fuori sembra anche decente e il prezzo, se non ricordo male meno di 27 euro per camera con colazione, decisamente a buon mercato. Dentro la musica cambia e le camere sono quel che sono, con acqua calda solo dalle 18:00.

Abbiamo però il bagno in camera e anche il tempo di cambiare i soldi… se vogliamo mangiare questa sera.

Operazione quest’ultima piuttosto laboriosa, ma soprattutto lunga. Alla fine, dopo quasi un’ora, esco con un bel pacchettone di carta mongola, che vale poco più di quella igienica.

Ho anche il tempo di passare in farmacia a comperare crema dopo sole e protezione solare, dato che sono veramente messo male in faccia. Scopro che i medicinali costano una fortuna: per due creme spendo quattro volte il prezzo della camera. E capisco anche perché i farmaci qui li vendono sfusi a richiesta: del tipo tre aspirine o due tachipirine. Le prendono dalle scatole e le vendono al dettaglio, diciamo. Alberto, da persona seria e parsimoniosa, mi sfotterà per tutta la vita, esibendomi lo scontrino della farmacia con cui avremmo potuto comperare mezzo albergo.

A proposito di albergo, pensavamo a torto che fosse il migliore, perché poco distante vicino ad una clinica privata tutta illuminata a festa, ce ne sta un altro messo decisamente meglio, almeno da fuori. Ma ormai è fatta.

Quest’ultimo albergo, il Bogd Hotel, ha però il miglior ristorante della città, che si chiama pure lui Bogd, e noi naturalmente ci infiliamo dentro senza troppi complimenti.

Come spesso accade i menu espongono molto più di quel che in effetti è realmente disponibile. Guardiamo le foto, ma poi dobbiamo fare i conti con quel che passa il convento: alla fine mi oriento verso una pizza.

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Ci vuole coraggio, ma io ne ho da vendere, anche se lì sul momento, come una premonizione, sento puzza di rogne… e infatti le rogne (intestinali) le avrò l’indomani.

Dopo cena torniamo in albergo, dove c’è un gran casino. Sono arrivati degli arabi, vestiti da arabi, con un codazzo di lussuosi jeepponi, servitori che accudiscono uccelli in gabbia e metri cubi di bagagli. Nella hall occupano tutto lo spazio. Ingombranti. Troppo. Saliamo per le scale e ci infiliamo nei nostri confortevoli letti.

Domani entriamo nel Gobi.

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Massimo
26-10-2023, 19:37
GIORNO 05 – 18 AGOSTO 2023
Arvaikheer - Ongi (225 km in moto)


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Dopo una magra colazione, prepariamo le moto. Fuori dall’hotel c’è un gran traffico di gente. Tutti in partenza verso il Gobi.

Il nostro itinerario prevede di seguire il corso del fiume Ongi sulla sua destra orografica, ossia dalla parte in cui ci troviamo e si trova la cittadina di Arvaikheer. Non vorremo fare il giro largo, perché abbiamo intuito una pista che, dalle carte, ci consentirebbe di attraversare il fiume con un itinerario più breve per arrivare a Saikan-Ovoo, un minuscolo villaggio ad una manciata di chilometri dalla meta.

In realtà, google maps ci dà un ulteriore itinerario, più diretto e breve, che sta anch’esso sulla destra orografica del fiume: l’incognita è data da un ponte che sembra ancora in costruzione. Se una volta arrivati là non si passasse, ci toccherebbe tornare indietro per 130 km e la tappa sarebbe andata a farsi benedire. Scartiamo dunque l’opzione.

Cerco, dunque, informazioni tra la gente in partenza sulla possibilità di guadare il fiume sulla scorciatoia che ci siamo in messi in mente di provare. Un ciccio bomba mongolo in canottiera, ci rassicura: il fiume è alto 20 cm, l’acqua è calma e si tratterà di una decina di metri al massimo. Mah… la cosa mi pare strana perché giusto ieri abbiamo attraversato lo stesso fiume (sul ponte stradale) per arrivare in città e ci pareva bello grosso e incazzato. Sarà…

Usciamo in direzione sud e prendiamo subito una pista di toule ondulé che scorre ben definita in direzione sud-est su terreno arido con cespugli bassi. Dopo 20 km, in prossimità del fiume improvvisamente scompare e non la vediamo nemmeno oltre l’altra sponda. Qui è tutta ghiaia grossa. Iniziamo a cercare un punto dove passare, ma è una battaglia persa. Il fiume è largo, veramente profondo e c’è molta corrente. Impossibile. Vorrei appendere il ciccio bomba alla sua canottiera!

Tocca tornare indietro: 40 km e due ore di tempo persi. E’ quasi mezzogiorno e siamo ancora al punto di partenza. Oggi ci tocca pedalare.

Per rendere meglio l’idea, a quanti decidessero di affrontare questa tappa, la mappa qui sotto riporta: a) in rosso il tentativo fallito (la X segna il punto in cui nella fantascienza si potrebbe guadare, ma la cosa è oggettivamente impraticabile) b) in blu la traccia di google maps, che consiglio perché il ponte, appena ultimato, e dunque nuovo di stecca, esiste (siamo andati apposta a controllare all’arrivo); c) in giallo la traccia che fanno tutti e che abbiamo fatto anche noi, che però è parecchio più lunga.

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Bene. Torniamo a Arvaiheer, facciamo benzina e ripercorriamo su asfalto la strada di ieri. Superiamo il fiume Ongi e poco dopo prendiamo una pista ben visibile sulla destra, che serpeggia subito tra le colline pelate. La città scompare all’orizzonte e ci rendiamo subito conto che qua l’ambiente è desertico: attraversiamo qualche torrente in secca, superiamo modeste salite e discese a ripetizione. Zero presenza umana e animale. Manco i cammelli ci sono oggi.

Ad un certo punto, dopo chilometri e chilometri nella desolazione più totale, arriviamo nei pressi di quella che un tempo forse era una miniera o una centrale di non so che cosa. Il luogo non è segnato su nessuna mappa. Un cane esce dai ruderi e ci insegue. Il posto è spettrale.

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Poco più avanti dobbiamo scegliere la direzione da prendere. Non capiamo quale sia la pista migliore per portarci in direzione del fiume Ongi, da cui ci siamo allontanati parecchio. Poco dopo troviamo una stalla, l’unica, da dove escono degli strani ceffi luridi all’inverosimile. Non riesco a spiegarmi. Alla fine esce pure una donna, zozza pure lei, che fortunatamente mi indica a gesti la direzione.

Secondo me è giusta, secondo Alberto sbagliata. Proviamo a seguirla con qualche dubbio, dato che non è proprio così evidente. L’ambiente si fa sempre più inculato. In pratica è tutto completamente piatto e non si vede nulla oltre l’orizzonte. Da qualunque parte ci giriamo, è tutto uguale.

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Comincia a farsi strada una certa ansia. Cosa succede se uno dei sue cade o se si rompe la moto? La distanza per raggiugere un centro abitato per chiedere aiuto è davvero tanta (almeno 80 km) e servirebbero ore per andare e tornare. Realizziamo che in posti come questo, essere in due soltanto, non è proprio il massimo. E non vediamo l’ora di toglierci da questa situazione. Ma la strada è ancora lunga.

Alberto è come inebetito.

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Più avanti il senso di isolamento si amplifica ulteriormente perché il paesaggio non cambia. In lontananza ci illudiamo di vedere laghi, fiumi e montagne, ma sono solo miraggi provocati dall’aria calda in prossimità del terreno.

Manca qualsiasi riferimento. Il sole è alto nel cielo e fa caldo. Non abbiamo scelta: dobbiamo per forza andare avanti, cercando di rimanere sulla pista giusta. Che posto surreale!

Quando ci si trova in luoghi così, dove il paesaggio resta tutto uguale, dove non si resta attratti da qualcosa in particolare, ognuno pensa in un certo senso ai fatti suoi. La mente si libera e i pensieri corrono dove vogliono, un po’ come le nostre ruote. In realtà, se ci pensate, ci si stacca proprio dalla realtà, quella quotidiana. E’ una sensazione strana da spiegare… è come un reset.

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Troviamo un unico bivio, peraltro segnalato. Ci fermiamo a mangiare un biscotto. Sentiamo in lontananza il rombo di un motore. Arriva una Mustang con a bordo due ragazzi mongoli. Si fermano ma possiamo comunicare solo a gesti. Ripartono e poco dopo spariscono all’orizzonte.

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Ogni tanto, sul profilo piatto di questa distesa senza fine, appaiono delle strane forme scure. Sono i resti di qualche animale, finito per sbaglio da queste parti e fatto a pezzi da predatori o avvoltoi.

Ogni tanto ci fermiamo a bere, ma ognuno resta perso nei suoi pensieri. Non c’è molto da dire in effetti. Non mi era mai capitato di sentirmi disarmato in uno spazio così grande e indecifrabile.

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Alla fine, quasi per inerzia, arriviamo al villaggio di Saikhan-Ovoo: un pugno di recinti e casupole di legno sperso in questo mare di terra.

Ci dirigiamo subito verso il fiume, per vedere se esiste il ponte di cui ho parlato all’inizio. Eccolo qua, nuovissimo, col catrame ancora caldo. Dunque si può arrivare da qui diretti da Arvaikeer e magari è la strada che farà tutte le mattine il pulmino per portare i bambini a scuola.

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Naturalmente prima e dopo il ponte sparisce tutto e c’è soltanto una pista. Questo ponte resta però di fondamentale importanza per questa tappa, perché rende possibile una seconda via alternativa. Vi lascio le coordinate esatte (45°27'45.93"N 103°53'45.01"E).

Troviamo un minimarket. Una bimba piange perché sua mamma non le compera le patatine. Strilla e fa i capricci. Gira scalza, tanto è tutta sabbia. Poco più avanti ci riforniamo ad un benzinaio gestito da miss condominio. Nel villaggio altro non c’è.

Avanti. In marcia, che siamo proprio vicini all’arrivo. Ci sentiamo gasati perché il grosso è fatto.

La pista scorre sempre su questa terra arida e pelata, avvicina il fiume e inizia a salire per una specie di valletta tra collinette rocciose. Il fondo adesso si fa ghiaioso, molto ghiaioso. La pista in salita si inerpica decisa nella ghiaia profonda. Io, che sono impedito ab origine, tengo i piedi giù perché, al di là di tanta teoria, il manubrio va dove vuole lui. Riesco tuttavia a non cadere. Diciamo che è come guidare sui ghiaioni del Po o del Trebbia, ma in salita, e con solchi più profondi. Dimenticavo: naturalmente con niente davanti e dietro per 150 km.

Al colmo della salita, siamo praticamente arrivati. Prendiamo una traccia sulla destra che sale ulteriormente e che ci porta diritti a Ongijn Hijd, una delle mete obbligate per qualsiasi tour nel Gobi.

Si tratta dei resti di un complesso monastico fondato, in questo luogo dimenticato dal budda, nel 1660. In realtà i monasteri erano due, uno per ogni parte del fiume. Complessivamente erano stati edificati 28 templi e al suo apice ospitava oltre 1000 monaci e 4 università buddiste.

La pacchia è durata dal 1660, anno dell’edificazione, al 1939 quando venne completamente raso al suolo dalla furia, alimentata dai russi, del governo comunista mongolo: i monaci vennero uccisi senza tanti complimenti e i sopravvissuti vennero arruolati a forza nell’esercito.

Ma dimmi te che fastidio davano ‘sti poveri monaci, che manco si sapeva praticamente dove si trovavano!

Oggi qualcosa è stato ricostruito, ma rimangono soprattutto le rovine, macchiate di sangue, di questo luogo davvero remoto.

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Non si potrebbe entrare, perché in effetti ci sono solo sentierini stretti e ripidi che serpeggiano tra le rovine. Infatti tutti vanno a piedi. Noi ovviamente entriamo in moto…

Abbiamo trascorso una giornata senza incontrare nessuno. E qua all’improvviso sbucano dal nulla gruppi accompagnati da guide: francesi, tedeschi, inglesi, spagnoli e pure italiani. La loro presenza non ci disturba, per carità, ma non ci dispiace l’isolamento in cui ci siamo infilati per tutta la giornata.

Siamo prossimi al tramonto e serve un posto per dormire. Detto fatto, nelle immediate vicinanza del monastero ci sono tre campi tendati e una guest house pacchiana fatta a forma di castello con i merli. Ecco spiegata la presenza di così tante persone.

Ci dirigiamo al campo più bello e lussuoso, si fa per dire. Si chiama Secret of Ongi. E’ quasi pieno, ma una tenda alla fine salta fuori. Il tempo di sistemarci, fare una doccia e andare a cena. Il personale non è molto sveglio, ma il menu uguale per tutti è discreto. Solo la sala da pranzo, in stile far west ci sembra un po’ fuori dal contesto, ma va benissimo così.

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Cala la sera e il fiume diventa d’argento.

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Le tende, rassicuranti, ci accolgono per la notte. Lo sentiamo come un premio per la giornata, davvero faticosa, trascorsa.

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Siamo proprio in un gran bel posto, davvero bellissimo. La Mongolia, da queste parti nuda e cruda, custodisce i suoi tesori preziosi o se volete le sue sorprese. Basta cercarle.

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Infine la Via Lattea e una stella cadente, ci salutano, prima di vederci crollare sfiniti dalla stanchezza di questa lunga giornata.

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Il Giova
26-10-2023, 20:46
Al termine Ciccio bombo mi sono fermato di leggere. Io sono 128 chili per 1.80 e sono obeso. Certi termini non è educato usarli. Specie per chi è Ciccio bombo.

momi20
27-10-2023, 15:12
Al termine Ciccio bombo mi sono fermato di leggere. Io sono 128 chili per 1.80 e sono obeso. Certi termini non è educato usarli. Specie per chi è Ciccio bombo.

Il report è accurato e pieno di informazioni, ma certe volte alcuni termini andrebbero evitati, anche per i ristoranti e alberghi lozzo laido ecc: basta un poco più d'attenzione.

Il Giova
27-10-2023, 17:21
Eh si concordo. Bisogna avere rispetto.

Massimo
27-10-2023, 18:30
Prendo atto delle vostre osservazioni, che naturalmente rispetto.

Tengo solo a precisare che tutto il racconto è carico di ironia e soprattutto autoironia, perché questo è il mio stile di scrittura, non frutto di disattenzioni o superficialità, e tanto meno animato da intenti offensivi, né riguardo a cose o persone che descrivo, né tanto meno con riferimento a chi legge, di cui ovviamente ignoro sensibilità e caratteristiche fisiche.

Il termine “cicciobomba” – che, per la grammatica italiana, è un epiteto - viene utilizzato per indicare – con tono comunemente familiare e scherzoso (esiste anche una famosa filastrocca… cicciobomba “canottiere”) - una persona grassa, quale era appunto il mio interlocutore, il quale oltretutto indossava proprio una “canottiera”. Mi sembra davvero evidente l’utilizzo in chiave ironica.

Altri termini come “lurido” o “zozzo”, sono stati utilizzati, non certo per offendere, ma semplicemente per descrivere, secondo il loro significato “proprio”, con un unico aggettivo, delle persone sospettose e un po’ inquietanti che effettivamente erano più che sporche, talmente sporche (probabilmente per il lavoro che stavano svolgendo e il luogo isolato in cui si trovavano) da rendere difficoltosa l’individuazione dei loro lineamenti. Tutto qui.

Talvolta, gli aggettivi possono avere diversi significati, alcuni anche dispregiativi, ma se ci si limita solo a quest’ultima accezione interpretativa (e dunque necessariamente soggettiva) allora andrebbero cancellati da vocabolario della lingua italiana.

Massimo
27-10-2023, 18:56
GIORNO 06 – 19 AGOSTO 2023
Ongi - Bayanzag (160 km in moto)

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Oggi ci attende un’altra lunga giornata in mezzo allo zero totale, anzi al doppio zero, come la farina.

Dal nostro campo in riva al fiume Ongi la pista sale subito in mezzo alle montagne, senza tanti preamboli. Il terreno è prevalentemente sabbioso, con la costante del toulé ondulè, tanto per cambiare. Partiamo per ultimi, per cui le jeep dei tour organizzati sono già avanti e non le vedremo più per tutta la giornata. Poco male, tanto ci siamo abituati.

La pista continua per un lungo tratto in mezzo alle solite colline pelate e incendiate dal sole, facendosi spazio in una specie di valletta serpeggiante. Si guida piuttosto faticosamente per il fondo che man mano si fa più sassoso.

Poi tutto spiana e torna il piattume a 360 gradi. Se non fosse per la traccia sul GPS una direzione vale l’altra, tanto è tutto assolutamente uguale. Il sole è una palla nel cielo e di ombra non se ne parla proprio.

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Torna il senso di smarrimento che ci ha travolto ieri… e i soliti pensieri nefasti e ansiogeni che ci hanno accompagnato e che ci accompagneranno per un bel pezzo. Se ci succede qualcosa qua in mezzo son banane.

In pratica non c’è niente da vedere, si tratta solo di guidare… possibilmente nella direzione giusta.

Boia se è grande ‘sto deserto: abbiamo calcolato che per venirne fuori ci serviranno cinque giorni. E cominciano a ronzarci in testa ragionamenti del tipo “ma chi ce l’ha fatto fare… anche no… ne avremmo abbastanza” e via dicendo. Insomma è una bella messa alla prova, soprattutto psicologica.

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All’improvviso, in lontananza vediamo una macchia scura che potrebbe essere l’ennesimo miraggio, ma avvicinandoci realizziamo che si tratta di una presenza animale in carne, gobbe ed ossa. E’ una mandria di cammelli che se ne sta tutta impacchettata per ridurre la disidratazione: si fanno ombra a vicenda.

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In mancanza di distrazioni ce le creiamo. Accelero e mi fiondo al centro del cerchio, giusto per vedere cosa succede. I cammelli mi fanno posto e poi, senza fare una piega, tornano a raggrupparsi come prima. In realtà non siamo mai riusciti ad avvicinarne nessuno, sono animali piuttosto diffidenti e preferiscono tenere le distanze.

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Fa piuttosto caldo. Non passa nessuno per tutta la giornata. Solo un camion e un van. Nient’altro. Ammazza oh che posto di nicchia. Volevamo il deserto e adesso ci togliamo la voglia… a dirla tutta ce la saremmo quasi tolta, ma non possiamo decidere noi quando finirà.

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Dopo un’altra mattonata di chilometri in mezzo a una mazza, compare un paesetto, in mezzo a una mazza pure lui. Non riesco a spiegarmi per quale logica ragione la gente decida di vivere qui, dove non c’è nulla da fare, ma nulla proprio, neanche pascolare le capre perché non c’è erba. Me lo sto ancora chiedendo.

Il ridente villaggio si chiama Mandal-Ovoo ed è lontano, parecchio lontano, da tutto e tutti. Eppure ci sono alcuni edifici nuovi di pacca. Credo si tratti della scuola, del comune e di qualcos’altro di pubblico, perché le abitazioni sono le solite baracche di legno. La piazza, pavimentata di fresco, è deserta. C’è tutto chiuso, a parte un minimarket con provvidenziale tettoia, che sarà per noi l’unico rettangolo di ombra di tutta la giornata. A proposito, niente benzina, ma lo sapevamo e avevamo fatto scorta ieri.

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Proseguiamo, ma la musica non cambia. Il Gobi è sempre uguale, maledettamente uguale. Almeno per un altro interminabile tratto. Ogni tanto ci guardiamo smarriti e cerchiamo un bagno che non c’è.

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Avanti e ancora avanti, sempre avanti. Diritti come siluri in questo spazio cosmico orizzontale, davvero immenso, che sembra non finire mai. Dire che siamo destabilizzati è dire poco.

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Torna la sabbia e in lontananza vediamo delle strane formazioni rocciose, come dei castelli in mezzo a ‘sto mare di nulla. Guadagniamo un altopiano seguendo delle piste non troppo evidenti. Non capiamo dove siamo diretti perché è tutto un su e giù tra ondulazioni aride.

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Arriviamo infine ad un campo tendato. Ci troviamo nella zona di Bayanzag, una delle attrazioni principali di questa terra desolata. In realtà i campi sono due, ma siamo troppo cotti per arrivare al secondo e quindi ci fermiamo al primo. Nella reception ci sono dei ragazzini piuttosto scazzati e per terra c’è sporco. Ci danno una tenda ma per la doccia dobbiamo aspettare. E’ quasi l’ora del tramonto, ossia quella giusta per vedere Bayanzag, che dista un paio di chilometri.

Si tratta di formazioni rocciose di arenaria che si elevano in un sol colpo nel piattume di questo deserto. Sono conosciute anche come Flaming cliffs (Rupi fiammeggianti) perché al tramonto si colorano di arancione. E noi siamo qua per questo. Tra queste rocce sono stati trovati fossili e uova di dinosauri, alcuni presenti soltanto qui.

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E’ incredibile come, in mezzo al nulla, ‘sti mongoli si attrezzino per rendere un luogo turistico, appunto turistico. In mezzo a ‘sto posto dimenticato da Dio, troviamo una fila di cammelli fatti di cartapesta, alcune bancarelle di souvenir e addirittura una passerella per camminare comodamente tra le rocce. C’è gente… praticamente tutta quella che dorme nei campi che si raduna qui per il tramonto.

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Girovaghiamo tra le rocce (il percorso è lungo circa un chilometro, ma volendo lo si può allungare) e aspettiamo che si colorino di arancione. Tira un filino di vento.

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La località è davvero fuori mano e venirci apposta anche no. Però è sulla via classica per arrivare alle dune del Gobi, per cui saltarla sarebbe davvero insensato. Il luogo è molto bello e se passate da ‘ste parti va visto.

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Torniamo al campo e ci facciamo una doccia, che dura più di un’ora perché l’acqua esce alla pressione di un bicchiere all’ora appunto. Ma di cosa possiamo lamentarci? L’acqua qua ce la portano con i camion da chissà dove.

Alla sera subentrano i pensieri negativi: ce la faremo a proseguire altri due giorni in questi posti del menga? Iniziamo a farci i film e a prendere in considerazione ipotesi B, C e anche D, come quella di noleggiare un Uaz per andare alle dune di Khongoryn Els, il punto metafisico di questo viaggio. Siamo entrambi tesi, con poca voglia di parlare. Momento no, emotivamente e fisicamente.

La notte porterà consiglio…

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Il Giova
27-10-2023, 20:50
Di ironico c’è ben poco nell’eticchetare una persona obesa come l’hai descritta tu.

momi20
28-10-2023, 10:44
Il termine “cicciobomba” – che, per la grammatica italiana, è un epiteto - viene utilizzato per indicare – con tono comunemente familiare e scherzoso (esiste anche una famosa filastrocca… cicciobomba “canottiere”) - una persona grassa, quale era appunto il mio interlocutore, il quale oltretutto indossava proprio una “canottiera”. Mi sembra davvero evidente l’utilizzo in chiave ironica.

Questo termine non lo userei mai, poi se scappa pazienza, ma è comunque dispregiativo

Altri termini come “lurido” o “zozzo”, sono stati utilizzati, non certo per offendere, ma semplicemente per descrivere, secondo il loro significato “proprio”, con un unico aggettivo, delle persone sospettose e un po’ inquietanti che effettivamente erano più che sporche, talmente sporche (probabilmente per il lavoro che stavano svolgendo e il luogo isolato in cui si trovavano) da rendere difficoltosa l’individuazione dei loro lineamenti. Tutto qui.

Io mi riferivo a quando è utilizzato per alberghi o ristoranti: di solito io dico dove e cosa ho mangiato (se riesco a capirlo) e poi metto una foto. Chi legge si farà un'opinione

Talvolta, gli aggettivi possono avere diversi significati, alcuni anche dispregiativi, ma se ci si limita solo a quest’ultima accezione interpretativa (e dunque necessariamente soggettiva) allora andrebbero cancellati da vocabolario della lingua italiana.

Tengo però a precisare che questo è il primo thread (discussione) davvero completo sulla Mongolia che io abbia letto, perlomeno sui forum che frequento. Pieno di indicazioni precise ed utili: dovendo decidere per una vacanza in moto in Mongolia lo consulterei e consiglierei.

Massimo
28-10-2023, 11:03
GIORNO 07 – 20 AGOSTO 2023
Bayanzag – Khongoryn Els (133 km in moto)

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La notte ha portato consiglio. Ci svegliamo con meno timori e incertezze. E siamo più motivati, anche perché l’idea di arrivare alle dune del Gobi, su un van con autista, come fanno tutti i turisti, ci sembra un ripiego da sfigati.

Non so cosa sia successo nelle nostre teste, fatto sta che siamo più ottimisti. Chiedo informazioni sulle condizioni delle piste per i prossimi due giorni, perché non ci basta arrivare alle dune, ma dobbiamo anche uscirne. Gli autisti mongoli dei van non capiscono una fava, ma le guide, che parlano inglese, sanno spiegarsi benissimo e tutte ci danno la stessa informazione: oggi troverete nel tratto finale sabbia per 20 km e domani altra sabbia nel tratto iniziale per 50 km.

Partiamo. Ripercorriamo più o meno l’ultimo tratto della pista di ieri, e poi un ulteriore tratto fino al villaggio di Bulgan. Qui facciamo benzina. Il rifornimento è obbligatorio e assolutamente necessario. Incontriamo un gruppo di turisti francesi con la loro guida. Uno di loro parla italiano perché è di origine friulana, come Alberto. La guida ci conferma le condizioni delle piste.

Basta è deciso: si fa e bella che finita. In fondo sono 130 km, meno di ieri e dell’altro ieri.

La pista corre verso est in mezzo al deserto. Sarà che siamo motivati, ma ci è sembrata meno ostica di quella fatta finora. Intendiamoci, il toulé ondulé è sempre presente, ma non mancano tratti più soffici. Erba neanche a parlarne ovviamente.

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C’è appena più movimento rispetto allo zero dei giorni scorsi. Qualche van ogni tanto, mica chissà quale traffico.

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Non abbiamo fretta. Siamo stranamente rilassati. Ci prendiamo tutto il tempo che vogliamo. In cielo volteggiano le aquile, che hanno tutto il tempo pure loro.

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Alla nostra sinistra corre sullo sfondo una catena montuosa di rocce scure, parallela alla nostra traccia. Sembra impenetrabile, eppure un punto per passare deve pur esserci, perché dall’altra parte dobbiamo arrivare. Guidiamo cercando di intuire un varco per attraversare le montagne, una valle, un canale, insomma qualcosa. Sembra che non ci sia nulla.

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Dopo un centinaio di chilometri la pista piega decisa verso sud, puntando diritta a questa catena montuosa. Proprio all’ultimo, quando ci sembra di sbatterci contro, appare d’improvviso una valle nascosta che sale tra le cime appuntite. Bene, abbiamo trovato il passaggio.

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Il fondo si fa leggermente più sassoso, ma si prosegue bene. Raggiungiamo la sommità della catena, presso una specie di pianoro sopraelevato. La pista spiana e poi prosegue in moderata discesa verso sud-ovest. Gli spazi si amplificano.

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In lontananza si vendono nel loro candore accecante le dune di Khongoryn Els che anticipano un’altra catena montuosa di roccia scura.

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Scendiamo nella pianura antistante le dune. Qui il fondo, come dettoci dalle guide, è prevalentemente sabbioso, ma non incontriamo particolari difficoltà. Le dune si fanno sempre più vicine.

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Arriviamo quindi al campo tendato Gobi Discovery Khongor. E’ metà pomeriggio e non c’è ancora nessuno. Ci danno subito una tenda e ci sistemiamo. Più tardi arriveranno tre ragazzi olandesi in moto e un gruppo di turisti asiatici con guida e van. Nessun altro. Strano. Il luogo è la principale meta del Gobi. Chissà dove sono finiti tutti i turisti che abbiamo incontrato lungo la strada? Forse in altri campi che sorgono un po’ più ad est. Meglio così.

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Il nostro campo è veramente molto confortevole. I bagni hanno docce e cessi nuovi e pulitissimi. Si sta proprio bene. C’è pure una parabola piantata per terra che assicura, in ‘sto posto lontano da tutto, la connessione dati: lusso smisurato direi.

Le dune sono indubbiamente una calamita. Non possiamo star qua con le mani in mano. Anche perché sono a portata di mano.

Khongoryn Els sono una distesa di dune che corre in direzione est-ovest per 80 km di lunghezza, 5 km di larghezza e 100 metri di altezza. Sono dette anche "dune che cantano", perché il vento che vi soffia pare produca sorprendenti melodie.

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Allora: melodie non ne abbiamo sentite, ma il vento si. Eccome. E pure bastardo perché arriva all’improvviso e ti riempie la borsa e il casco di sabbia. Fotografare è un po’ un’impresa perché il cavalletto non sta dritto. E ti ribalta pure la moto, ancorché ben affondata.

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Per arrivare alle dune seguiamo una pista che - ovviamente - si fa sabbiosa, veramente sabbiosa, anzi totalmente sabbiosa. Attraversiamo un torrente dove pascolano i cammelli. Risaliamo dall’altro versante. Tutta sabbia e nient’altro che sabbia. Non siamo affatto pratici, io soprattutto, per cui ci accontentiamo di arrivare alla base delle dune. Salirle per noi è veramente troppo difficile, soprattutto con queste motorette che ci troviamo sotto le chiappe.

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Siamo però felici come bambini. Talmente felici che io faccio un salto e Alberto mette a dura prova il suo mezzo meccanico.

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Il parco giochi è aperto per bambini mai cresciuti. Lasciamoli sfogare, che se lo son meritato.

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Siamo nel punto d’arrivo del nostro viaggio, il punto topico, la molla che aveva alimentato la nostra curiosità di venire in Mongolia. Abbiamo guidato fin qui per vedere queste dune, per starci in mezzo, per dormirci alla base, per sentirci piccoli in mezzo a tutta questa immensità, per sentirci lontani, anzi lontanissimi da casa e dalle comodità di tutti i giorni.

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Se pensiamo a dove siamo, in mezzo all’Asia, nel deserto del Gobi tanto desiderato, quasi non ci crediamo. Siamo euforici, strabiliati, emozionati, commossi, soddisfatti e felici, veramente felici… siamo il puntino rosso in questa vastità.

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Cala la sera e anche il vento. Ora c’è assoluto silenzio. Le luci delle tende in lontananza tra poco si spegneranno.

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Siamo troppo felici per preoccuparci della giornata di domani.

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gspeed
28-10-2023, 18:45
Spettacolo!!!

stino
29-10-2023, 08:34
Bellisimo viagggio,grazie per la condivisione

ixus
29-10-2023, 16:12
Bello Massimo , grazie per averci resi partecipi della tua esperienza .
Mi piace molto come scrivi e descrivi , leggendo il tuo racconto mi da l'impressione di trovarmi davanti ad una birra con un amico che mi racconta il suo vissuto in viaggio ,ironico quanto basta come le persone intelligenti sanno fare , un vero piacere leggerti .

Massimo
29-10-2023, 16:45
GIORNO 08 – 21 AGOSTO 2023
Khongoryn Els - Khanbogd Tourist Camp (161 km in moto)

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Oggi ci attendono 160 km per uscire dal Gobi, ma siamo positivi perché gli ultimi 50 sono stati asfaltati di recente.

Prima di partire torniamo però sulle dune per raccogliere una bottiglietta di sabbia ricordo. Il più prezioso souvenir del viaggio, di quelli che non puoi comprare insomma.

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Lasciamo il nostro campo tendato e ci dirigiamo in direzione est, lungo un’ampia valle con le dune alla nostra destra. La pista in effetti è piuttosto sabbiosa, come ci avevano detto, per i primi 50 km data la vicinanza alle dune. In realtà quel che disturba è più che altro il solito toulé ondulé, che proprio non ci garba.

Questa mattina c’è un discreto movimento di van che portano e riportano i turisti. Ci sono anche alcuni camion che hanno parecchia difficoltà a muoversi da queste parti, soprattutto negli avvallamenti profondi del terreno. Qualcuno resta pure insabbiato.

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Il paesaggio ovviamente è secco incendiato, talmente incendiato che nemmeno i cammelli, quasi rinsecchiti, trovano acqua. Del resto siamo in un deserto dopo tutto.

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Arriviamo così nel punto in cui questa lunga catena di dune si esaurisce nella piana arida di questa valle. Ci dispiace lasciare questo luogo che non dimenticheremo facilmente. Sì, perché è di quelli che ti restano dentro, come la sabbia che abbiamo letteralmente ancora nelle mutande.

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Ci fermiamo, con un po’ di malinconia (e di prurito), a guardare per l’ultima volta da lontano questa terra veramente lontana. Siamo rilassati, felici, ma anche dispiaciuti. Ma è così che deve andare. In fondo abbiamo soltanto assaggiato il Gobi…

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Ci rimettiamo in marcia. La pista ora fila dritta come un filo disegnato sulla terra. Qualche Uaz sfreccia in lontananza a velocità supersonica che noi possiamo solo sognare. Da qui in avanti si volta pagina.

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Arriviamo quindi al villaggio di Bajandalaj, poco più di 2000 abitanti. Qui hanno appena fatto una lottizzazione. Ci sono edifici nuovi, viabilità che finisce nel nulla, un paio di banche e stanno costruendo palazzotti moderni. Per il resto, la maggior parte del centro abitato, è fatta delle solite case di legno.

Ci fermiamo nella piazza principale a comperare qualcosa. Poco dopo arrivano i tre ragazzi olandesi che abbiamo incontrato ieri al campo sotto le dune. In bella mostra in piazza sta parcheggiata una Dayun Hunter: in pratica un clone delle nostre Mustang, stessa componentistica e stesso motore, con l’illusione di cavalcare un enduro.

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A proposito: abbiamo finito i soldi, quelli mongoli. Aspettiamo che aprano le banche: la prima non cambia, la seconda cambia solo con carta di credito. I soliti 45 minuti per sbrigare la complessa pratica ed esco con un altro paccone di soldi. Ora siamo più tranquilli perché da queste parti gli euri non li accettano dappertutto.

Appena fuori dalla cittadina, inizia l’asfalto, nuovo di stecca, liscio come un biliardo. Si guida che è una meraviglia. Arriviamo ad un incrocio dove, sulla destra, inizia la pista per le gole di Yolyn Am (che esploreremo domani). Il campo tendato che si vede dalla strada, così a pelle, non ci piace; quindi prendiamo una pista in direzione nord che si perde tra le colline. In lontananza si vede l’immensa pianura dove sorge la città di Dalanzadgad, che dovrebbe essere, salvo errori, la più grande della Mongolia meridionale con i suoi 15.000 abitanti.

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Appena 4 km di piste ci separano da un altro campo, non visibile dalla strada principale, che sorge in una bella radura riparata tra le montagne: Khanbogd Tourist Camp.

Caspita che posto! Le tende sono ben tenute, i bagni eccellenti con docce bollenti e immacolate e il ristorante degno di questo nome dove abbiamo poi cenato divinamente. Ma torniamo alla sabbia nelle mutande, quella accumulata durante le raffiche di vento traditrici sulle dune di ieri… beh abbiamo fatto il bucato lasciando nei lavandini tanta di quella sabbia da intasare gli scarichi.

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La serata è limpida e si sta davvero bene. Questo è il miglior campo incontrato durante tutto il viaggio. Splendido veramente.

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Sulle colline che circondano il campo hanno piantato delle statue di animali. Ci sono l’orso, lo stambecco e il muflone. Ci arrampichiamo in cima per osservare il panorama. E’ tutto così straordinariamente bello. Siamo in pace con il mondo e con il Gobi, che si è concesso e ci ha fatto passare senza danni. Non potevamo immaginare un epilogo più grandioso di questo.

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Poi arriva il tramonto e ci regala la solita magia. Anche questa volta ci sentiamo accolti e protetti da questa natura davvero così diversa da quella che siamo abituati a vedere.

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Salutiamo l’ultimo tramonto del Gobi e ci infiliamo nei nostri comodi letti.

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Massimo
30-10-2023, 18:11
GIORNO 09 – 22 AGOSTO 2023
Khanbogd Tourist Camp - Dalanzadgad (111 km in moto)

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La giornata di oggi è tutta dedicata all’esplorazione dello Yolyn Am Canyon, che si trova giusto a due passi, per cui non abbiamo nessuna fretta, dato che la strada è poca e stasera ci attenderà finalmente un hotel con bagno in camera.

L’idea è quella di percorrere queste famose gole, che, ai margini del deserto del Gobi, sono percorse da un torrente. Non vorremo tuttavia fare la puntata classica che fanno un po’ tutti, nel senso che vanno e vengono dalla stessa strada: abbiamo in mente di seguire un tracciato ad anello, che però, da quel che ho intuito, in pochi fanno, raramente i tour organizzati perché, come poi vedremo - in un paio di punti - gli Uaz credo non passino proprio.

Torniamo alla strada asfaltata di ieri, la attraversiamo e prendiamo una pista che punta, a sud, diretta alle montagne di roccia scura. Il tracciato risale una stretta valletta incastonata tra le pietre. Saliamo decisi per 400 metri di dislivello con alcuni saliscendi. L’ambiente è piuttosto opprimente e ci sentiamo sovrastati dalle rocce incombenti.

Arriviamo ad un bivio fondamentale: a sinistra ci attendono le gole vere e proprie dove la pista finisce in un sentiero percorribile solo a piedi, mentre a destra, in teoria (ma anche in pratica) si può tornare facendo il giro completo.

Via, dunque, sparati a sinistra fin dove la strada finisce in un comodo parcheggio, dove ci sono un paio di chioschi di souvenir e un gruppo di ronzini in attesa di clienti. Per la modica cifra di 15 euro noleggiamo due destrieri, pardon ronzini, e una guida mongola su ulteriore ronzino.

Il cavallo consente in una mezz’ora di percorrere il tragitto che, a piedi, richiederebbe invece un paio d’ore. Sia chiaro: non è un’avventura, ma una cosa da turisti, però l’idea di provare il cavallo ci attira e quindi saliamo in sella.

‘Ste povere bestie, costrette controvoglia a fare per tutta la vita lo stesso percorso avanti e indietro, ci fanno pena, perché non ne avrebbero nessuna voglia. E lo si capisce benissimo dal fatto che la guida le tira costantemente per il morso. Ma questi ci hanno dato e questi ci teniamo.

Il canyon parte piuttosto largo. Gli yak brucano la rara erba sentendosi fortunati rispetto ai cavalli che, l’erba, la possono solo guardare.

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Io sono parecchio impacciato, nonostante la sella sia comoda, e pure un po’ perplesso perché ‘ste povere bestie non mi convincono del tutto: se non fossero legate al capo gita, di sicuro ci disarcionerebbero perché sono piuttosto scazzate.

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Soffrono poi di meteorismo, e quella di Alberto pure di incontinenza.

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Più avanti il sentiero si fa veramente stretto e io vorrei tanto proseguire a piedi, ma il giamburrasca che guida la carovana non fa una piega e prosegue ugualmente, seguito dai quadrupedi obbedienti.

Finalmente decide che non si può più proseguire (e ti credo perché ci vorrebbe la moto da trial). Quindi ormeggiamo i cavalli che tirano un sospiro di sollievo.

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I cavalli che abbiamo visto fino ad ora sono tutti piuttosto piccoletti, una via di mezzo tra un pony e un cavallo di taglia normale. Non me ne intendo, ma credo che siano proprio di marca fatti così. Comunque sanno galoppare e dicono che siano anche robusti.

Bene. Finalmente si prosegue a piedi. Il canyon è suggestivo. C’è pure un rigagnolo d’acqua. Più avanti lo spazio diminuisce fino ad un restringimento evidente. In realtà il canyon e il torrentello proseguono oltre, ma bisogna scendere per facili rocce e proseguire.

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Si potrebbe anche fare perché di tempo ne abbiamo, ma il capoclasse viene a recuperarci con il suo destriero. E’ ora di tornare.

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In una mezzora siamo di nuovo al parcheggio e in breve torniamo al fondamentale bivio. Teniamo la sinistra e imbocchiamo una pista che dovrebbe portarci ad un altro canyon, con un suggestivo restringimento, dove gli Uaz, secondo me, arrivano solo dall’altra direzione e poi tornano. Noi invece vogliamo percorrerlo tutto.

Il canyon in cui ci siamo infilati corre grosso modo in direzione est-ovest. Noi veniamo da est e siamo diretti a ovest. I tour organizzati invece, solitamente, entrano ed escono da ovest fino al fotogenico restringimento in questione, perché oltre non passano, almeno nelle condizioni che abbiamo incontrato noi. E infatti non abbiamo visto nessuno passare il punto fatidico.

La pista non è semplicissima e presenta alcuni salti, anche rocciosi, stretti e parecchio sconnessi. In un paio di punti passa appena una moto, e non solo in larghezza ma anche in altezza, nel senso che qualsiasi veicolo si pianterebbe di muso. Il punto più delicato è costituito da una salita molto ripida di terra instabile con solchi profondi. Si tratta di una cinquantina di metri, ma parecchio in piedi, talmente in piedi che la moto lanciata in prima a gas spalancato e di slancio ne esce a fatica per la poca potenza a disposizione. Alberto comunque riesce, mentre io mi incastro in uno dei solchi e mi pianto. Da buon samaritano pensa lui a togliermi di impaccio. Sono sfigato, lo so. Compatitemi.

Il canyon comincia a stringersi. Arriviamo al punto più fotogenico. Qui troviamo un fenomeno che ha provato a passare oltre con una Toyota Prius. Passare è passato, ma ha bucato nel bel mezzo del torrente.

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Ben gli sta. Possibile che la gente debba per forza andare dove non si può? Comunque poco più avanti avrebbe dovuto in ogni caso tornare indietro per forza per i motivi di cui sopra… e pure in retromarcia perché non c’è spazio per girarsi.

Entriamo nella gola e passiamo il punto topico. Ovviamente per le moto c’è spazio in abbondanza. Il posto è davvero bello.

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Oltre il collo di bottiglia, il canyon incomincia gradualmente ad aprirsi. Il fondo qui è tutta ghiaia ovviamente, dato che siamo nel greto del torrente.

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La pista principale proseguirebbe verso ovest in campo aperto, bella comoda, ma noi decidiamo di complicarci la vita. Sì perché avevamo in mente di chiudere l’anello delle gole. Così prendiamo un’altra pista in direzione nord, che, dopo un breve tratto evidente, si fa ben presto poco marcata.

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Ci troviamo di fronte ad un’altra salita assai ripida in terra mossa. Questa volta però, ascolto gli insegnamenti di Alberto, e riesco a superarla. La pista inizia a salire decisa per guadagnare un pianoro sopraelevato. In lontananza vediamo la strada asfaltata che dovremmo raggiungere, solo che non sappiamo come.

In pratica ci troviamo a guidare su terreno libero. Facciamo vari tentativi a vuoto. Finiamo sopra uno strapiombo sopra un torrente in secca. Dietro front. Proviamo a seguire un’altra direzione ma ci troviamo sul bordo di un altro salto, da cui non riusciremo poi a tornare indietro. Proviamo e riproviamo in ogni direzione. In realtà ci stiamo divertendo un sacco, perché la guida libera, quella di ricerca pura, ha sempre il suo fascino. Ci siamo, in poche parole, persi, ma non siamo preoccupati, perché in lontananza vediamo l’asfalto: il problema è come raggiungerlo. Poco male, alla peggio torneremo indietro. Siamo super rilassati. Alla fine, prova e riprova, finiamo dentro il greto asciutto di un fiume, con sassi grossi e poco divertenti, oltre il quale guadagniamo finalmente l’asfalto.

E’ stato il pezzo più appagante della giornata: la guida fuori pista non ha paragoni, fidatevi.

Ora non ci rimangono che 50 km di asfalto veramente perfetto fino a Dalanzadgad. Per prima cosa cerchiamo una banca perché siamo di nuovo a secco. Solita trafila e solito malloppo di carta in mano. Poi puntiamo al miglior albergo della città: il Khan Uul Hotel & Suite, dove più tardi arriveranno anche i tre olandesi senza patente che abbiamo conosciuto nel Gobi. Ci danno una superior per 23 euri. Qualche problema per quanto riguarda l’acqua calda, ma i letti sono confortevoli e le moto al sicuro in garage.

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La cittadina non è un granché: un doppio viale alberato decadente e poco più. In poche parole è un mortorio. Brutta come poche. E parliamo con cognizione di causa, perché l’abbiamo girata in lungo e in largo alla ricerca di un ristorante.

Alla fine non ci resta che il Khishig Zoog Pub & Restaurant, che però non troviamo subito, perché se ne sta imboscato al quinto piano di questo anonimo condominio.

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E’ già buio. Le luci delle scale non funzionano, così come l’ascensore. Quindi ci facciamo il tour panoramico: al primo piano c’è un ambulatorio medico, al secondo c’è un’assicurazione, al terzo un altro ambulatorio e al quarto un ufficio di non so che cosa. Sebbene siano le nove di sera, le porte sono tutte aperte anche se dentro non c’è nessuno.

Il ristorante al quinto piano è quasi vuoto. Le tovaglie sono sporche e incrostate ma il menu è invitante, talmente invitante che quasi tutto quello che propone non è disponibile, così finisco per ordinare la mia seconda pizza mongola.

Google traduttore corre in aiuto… moderatamente in aiuto perché mi preoccupa l’enigma della parte chiamata “pizza mista”. Non capisco cos’è ma la ordino fiducioso. Non vi dirò mai com’era.

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https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/0bLAQw.jpg (https://imageshack.com/i/po0bLAQwj)

Il top però sono i vini, sui quali non c’è molto da aggiungere. Voliamo bassi e ci dirottiamo su una rassicurante birra.

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Stiamo meditando su come gestire i prossimi tre giorni a disposizione per rientrare a Ulan Bator. In effetti siamo un po’ stanchi, e anche appagati di come è andato sinora il viaggio. Saremmo anche a posto di piste, sabbia e soprattutto toulé ondulé. Ci frulla l’idea di accorciare il rientro e dedicare un giorno in più alla capitale.

Ci penseremo domani, ora dobbiamo cercare di digerire…

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Massimo
31-10-2023, 19:06
GIORNO 10 – 23 AGOSTO 2023
Dalanzadgad – Mandalgovi (305 km in moto)

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/QTggCZ.jpg (https://imageshack.com/i/poQTggCZj)

L’idea originaria era quella di rientrare a Ulan Bator in tre giorni, dormendo in due campi tendati. Il tutto per la bellezza di altri 650 km, di cui 180 sterrati, con sosta a Tsagaan Suvarga e Baga Gadzriin Chuluu, due attrattive diciamo classiche di tutti i tour organizzati.

Avevamo però messo in conto, in caso di emergenze o di ritardi sulla tabella di marcia, di poter rientrare in due giorni facendo tutto asfalto, con minor chilometraggio (580 km). Invece siamo puntualissimi.

Peraltro la voglia di fare altro sterro ci era già passata ieri sera, perché in effetti siamo abbastanza stanchi. Tra l’altro le due mete programmate sono su deviazioni dal percorso principale, che sale diritto da sud a nord, per cui decidiamo di avviarci e, caso mai, di deviare se ci venisse voglia.

La voglia poi non ci è venuta, ma di sterro comunque ne abbiamo fatto lo stesso.

Per rendere l’idea, la mappa qui sotto evidenzia in blu il percorso che poi abbiamo seguito (tutto asfalto) e in rosso le deviazioni sterrate (che abbiamo saltato).

https://imagizer.imageshack.com/v2/xq70/924/23WhzO.jpg (https://imageshack.com/i/po23WhzOj)

Che cosa ci siamo persi? Beh queste altre due attrazioni, come detto, Tsagaan Suvarga e Baga Gadzriin Chuluu.

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Questi due giorni sono di una monotonia mortale, del tipo attraversare tutta la pianura padana da Trieste a Torino ai 50 all’ora, con in mezzo praticamente nulla o quasi. Tutto piatto, tutto brullo, tutto uguale, tutto palloso, per cui non c’è molto da dire.

Però è una cosa che va fatta se vogliamo tornare a Ulan Bator.

Usciamo da Dalanzadgad e subito facciamo benzina. Quindi ci infiliamo sull’unica strada che punta a nord. Questa sola c’è, per cui è difficile sbagliarla. L’asfalto è generalmente buono, ma traditore. Sì perché c’è un discreto numero di buche profonde in cui è meglio non finire dentro. La guida richiede dunque attenzione, anche se giocoforza andiamo piano. Il traffico è scarso, quasi inesistente.

Ci fermiamo per una pausa. Un pastore arriva in una piazzola di sosta a vendere il latte delle sue mucche che offre confezionato in bottiglie vuote dell’acqua minerale.

Facciamo tratti di 50 km al colpo e poi ci fermiamo perché altrimenti rischiamo di addormentarci per la monotonia. Arriviamo ad un’altra area di sosta, dove sta una specie di baretto. Ci sono dei mongoli che muniti di maschere antigas stanno scaricando un camion pieno di fertilizzanti… a pochi metri da chi sta mangiando in mezzo alla polvere. Altri mongoli scendono da un pullman e scatarrano per terra. Non ci viene voglia di mangiare e ripartiamo.

Poco oltre stanno riasfaltando la strada e quindi siamo costretti a lunghissimi bypass su piste sabbiose che si diramano ad cazzum a fianco della careggiata. Sterro quindi obbligatorio.

Ho problemi alla catena, che sulle piste, per gli scossoni, continua a cadere. La rimetto senza fatica perché è proprio lasca. Operazione che rifaccio più volte, fino a quando Alberto, preso da misericordia, tira fuori i ferri e risolve il problema una volta per tutte.

Alla fine arriviamo nella cittadina di Mandalgovi e puntiamo al primo albergo che vediamo dalla strada: uno scatolotto rettangolare che si chiama Awuo Hotel Restaurant.

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Una vecchia mongola, con la mania della pulizia, sta alla reception ma non capisce nulla di quello che le chiedo. Con l’aiuto di una cameriera dell’adiacente ristorante, riesco a prendere una camera per la modica cifra di 19 euro: questa.

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Poco dopo arrivano anche i tre olandesi, che ci seguono a distanza. Hanno avuto problemi ad una delle Mustang: in pratica la pipetta della candela non faceva contatto. Ne hanno comperata una di riserva non so dove e l’hanno cambiata nel parcheggio dell’albergo. Erano incazzati non poco perché la moto continuava a spegnersi.

Penso alla fortuna che abbiamo avuto con le nostre motorette.

Dopo la cena nel miglior ristorante della città, andiamo a dormire. Non vediamo l’ora di cavarci dalle palle ‘sta strada interminabile.

GIORNO 11 – 24 AGOSTO 2023
Mandalgovi - Ulan Bator (276 km in moto)

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Dai che oggi se Dio vuole, dovremmo arrivare a Ulan Bator.

Di nuovo in sella senza novità paesaggistiche. Sempre la solita solfa: tutto piatto e secco. Solite buche profonde sparse a random. Sempre i soliti lunghissimi bypass su piste laddove la strada è in riasfaltatura.

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Soltanto a un centinaio di chilometri a sud della capitale, incominciano le praterie, quelle verdissime delle cartoline. Aumenta il traffico surreale, in cui ci infiliamo coraggiosi e rassegnati.

Finalmente parcheggiamo in hotel, dove ritroviamo i nostri bagagli e la nostra camera. Di nuovo nella comodità. Per cena, dato che abbiamo le scatole piene di cibarie mongole, ci infiliamo al Veranda Restaurant, che propone cucina internazionale e italiana (modificata). E’ frequentato prevalentemente da occidentali e da mongoli benestanti. Si mangia davvero bene, nonostante le modifiche. E’ decisamente il migliore di tutti quelli provati. Vado con la terza pizza mongola: very good.

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Domani e dopodomani faremo i turisti.

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Massimo
01-11-2023, 11:07
EPILOGO – 25 AGOSTO 2023
Ulan Bator – Ulan Bator (19 km in moto)

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Turisti dicevo. Ebbene eccoci qua, pronti ad un bagno di cultura mongola.

La capitale, all’inizio, ci aveva parecchio disorientato perché è una città decisamente brutta, costruita in maniera approssimativa, con un‘espansione edilizia fuori controllo: si costruiscono grattacieli modernissimi a cifre da capogiro a fianco di vecchi caseggiati di stampo sovietico.

Ora che ci siamo ritornati, ci fa già un altro effetto. Ci pare più decifrabile nelle sue contraddizioni.

Bene, ci avviamo verso la piazza principale, dove sta piantata – devo dire doverosamente – la statua di Marco Polo.

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Ci dirigiamo quindi al Museo Nazionale della Mongolia. Seppur piccolo, è davvero una tappa irrinunciabile e merita di essere visitato, perché racconta la storia di questo paese, non solo quella del grande impero di Gengis Khan, ma anche quella recente, che in pochi conoscono.

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Dopo l’epoca sovietica, quando la Mongolia in pratica era una specie di satellite russo (quanto meno per sottrarsi all’influenza dei cinesi, tanto odiati e contro cui aveva pure combattuto), e soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, qui è iniziata una protesta pacifica per voltare pagina e trasformare il paese in una democrazia.

In estrema sintesi: nel 1989 inizia la fine del partito unico comunista e si fanno spazio nuovi partiti democratici, social-democratici e nazionalisti, che esigono riforme. L’anno successivo si celebrano le prime elezioni multipartitiche, ma i comunisti mantengono il potere, anche se aprono le porte alla liberalizzazione politica e soprattutto economica, di cui la Mongolia aveva un gran bisogno.

Nel 1992 viene promulgata la nuova costituzione e, sempre in quell’anno, il Partito Rivoluzionario del Popolo Mongolo vince le elezioni, mentre le ultime truppe dell'ex Unione Sovietica abbandonano definitivamente la Mongolia.

Tutta questa storia, fatta di rivoluzioni pacifiche, con eschimo e colbacco, non ci viene insegnata a scuola, ma in questo museo viene raccontata con fotografie e oggetti dell’epoca. Davvero interessantissima.

Il museo ripercorre inoltre la storia del paese dalle origini. E’ un po’ lo scrigno che racchiude l’identità di questo fiero popolo, un tempo grande e potente. E’ trattata bene anche la parte relativa al breve impero di Gengis Khan e ai costumi locali. Direi che bisogna per forza vederlo.

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Ci spostiamo quindi al Museo di Storia Naturale della Mongolia, piccolo e poco interessante. Sembra quasi un museo di paese. L’unica emergenza è costituita dalla parte dedicata ai dinosauri.

A dirla tutta non potevo assolutamente mancare di visitarlo per una ragione molto personale. Mio figlio da piccolo collezionava e giocava con gli animali della Schleich (chi ha figli sa cosa intendo) e come tutti i bambini era appassionato di dinosauri. A tre anni mi raccontava che uno dei suoi dinosauri – un Saichania – era rarissimo e che l’unico esemplare era custodito nel museo di Ulan Bator. Tre anni dicevo…

Gli avevo promesso che saremmo andati insieme a vederlo, in una sorta di viaggio sognato, ma poi mai realizzato. E’ cresciuto e si sa, gli entusiasmi passano per lasciar posto ad altro. La promessa mancata, potevo mantenerla solo a metà… nel senso che ora mi trovo qui da solo e non con lui.

Eccolo qua il Saichania: ricostruito a dire il vero, ma il teschio fossile, probabilmente uno dei pochi esistenti al mondo, è qui.

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Ho fatto qualche passo indietro, in mezzo alla sala e mi sono visto di spalle mentre tenevo il mio bambino per mano ad ammirare il suo dinosauro preferito. Il resto delle sensazioni, quelle di un padre, sono troppo intime per raccontarvele.

Scusate la divagazione, che sono certo non interessa a nessuno, e torniamo al museo. Piccolo e poco interessante dicevo, ma qualche altro dinosauro fa bella mostra in una stanza dedicata.

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Usciamo in direzione ovest dalla zona centrale della città, oltre il fiume. I quartieri si fanno più modesti e le strade sono in parte ancora sterrate.

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Siamo diretti al Monastero di Gandantegchinlen Khiid, che poi è una vasta area in cui stanno piantati templi buddisti.

Abbiamo la sensazione che la Mongolia sia fondamentalmente atea, perché in giro sono rarissimi i luoghi di culto. E anche nella capitale è così. La zona religiosa infatti è quasi tutta concentrata qui. E qui la gente viene a sposarsi.

Parlo con cognizione di causa perché ci siamo imbucati a due matrimoni, cosa a cui non riesco proprio a resistere. Sposi felici, invitati agghindati nei loro costumi tradizionali, fieri come pochi. E poi damigelle e tutto il resto. Addirittura le mamme delle spose sono venute a stringermi la mano. Adoro i matrimoni degli altri…

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Entriamo in uno dei templi, dove si sta celebrando una cerimonia. Una moltitudine di monaci recita delle litanie monotono che mi fanno addormentare. Forse c’è la cresima di qualcuno. Boh. Alla fine suonano delle specie di trombe enormi e lunghissime, del tipo “la messa è finita andate in pace”, solo che tremano anche i muri per il suono assordante che emettono. Via. Fuori, e di corsa.

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Ma è il tempio principale l’attrattiva topica. Si, perché all’interno custodisce una colossale statua del Buddha in piedi, alta 20 metri. Esagerati proprio…

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Comunque tutto il complesso monastico, che è una sorta di cittadella nella città, è stato uno dei pochissimi a salvarsi dalla furia distruttiva stalinista, perché era considerato monumento storico. Chiuso nel 1938 ma non distrutto, fu riaperto nel 1944 ed è stato per un bel pezzo l’unico in funzione in tutta la Mongolia.

E’ venuta l’ora di un gelato. Anzi due.

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Si è fatto tardi. Dobbiamo restituire le moto. Ce ne eravamo quasi dimenticati. Via di corsa in albergo e poi dentro di petto al traffico allucinante della citta, che richiede i suoi tempi. Vogliamo fare gli splendidi e decidiamo di lavare le moto. Per qualche euro tornano nuove. Manco quando le abbiamo ritirate erano così lustre.

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Arriviamo da Cheke Tours quasi all’ora di chiusura. La cauzione ci viene restituita senza battere ciglio. Vediamo le moto dei tre olandesi nel cortile. ‘Sto giro sono arrivati prima di noi. La signora che gestisce tutta la faccenda ci chiama un taxi. Abbiamo il tempo di una chiaccherata.

Torniamo in albergo che è veramente tardi. I ristoranti sono praticamente tutti chiusi. Così ci dirigiamo nei market che sono l’unica cosa aperta a quest’ora. Abbiamo camminato tantissimo oggi. Siamo sfiniti. Fortuna che i letti sono comodi….

EPILOGO – 26 AGOSTO 2023
Ulan Bator – Ulan Bator (zero km in moto)

Mi sveglio sottotono, non mi sento benissimo, sono un po’ cotto. Oggi l’ultimo giorno, quello dedicato allo shopping. Niente centri commerciali però.

Il Narantuul Market, conosciuto anche come mercato centrale o mercato nero, è il più grande della capitale. Giusto per dare l’idea occupa una superficie di oltre 200.000 metri quadrati in cui trovano posto circa 15.000 commercianti.

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Ci si trova di tutto, ma proprio di tutto. La maggior parte della merce è di importazione cinese. Ovviamente è il regno del falso: qua si copia di tutto, dalle aspirapolveri Dyson alle scarpe Nike. Se si cerca qualcosa qui la si trova.

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Come dicevo all’inizio di questa storia, è raccomandato entrarci solo con il denaro che pensate di spendere, senza borse, borselli, zaini, telecamere e quant’altro. Gli spazi sono davvero stretti, il contatto fisico con la moltitudine di gente è costante, per cui il rischio di borseggi è reale.

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Tra un po’ iniziano le scuole. E’ tutto un via vai di mamme che comprano i grembiuli per i loro figli. Poi ci sono le bancarelle che vendono gli zainetti. Altre che sono cartolerie dove ci stanno pacchi di quaderni in offerta.

Noi cercavamo nello specifico dei cappelli mongoli e un po’ di regali. Alla fine li abbiamo trovati, ma data la vastità siamo rimasti dentro almeno quattro ore.

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La Mongolia è famosa per il suo pregiato cashmere, che ovviamente costa molto poco se paragonato al mercato europeo. Usciamo dal mercato e ci dirigiamo in centro. Entriamo in due grandi negozi che vendono solo capi 100% cashmere. I prezzi sono più che abbordabili. Prendiamo qualche sciarpa e già che ci siamo delle calze di cammello e yak.

Verso sera, prepariamo i bagagli e torniamo nel nostro ristorante preferito, il Veranda Restaurant per l’ultima cena mongola, che però è internazionale. L’ultima notte mongola sarà breve perché all’alba dobbiamo alzarci.

EPILOGO – 27 AGOSTO 2023
Ulan Bator – Verona (zero km in moto)

Oggi sarà una lunga giornata.

Un taxi ci aspetta fuori dall’hotel. Sono le 4 e mezza del mattino. Ci imbarchiamo per Istanbul. Dopo nove ore di volo, ci sollazziamo per altre cinque nel faraonico aeroporto turco. Seguono altre due ore abbondanti di volo fino a Venezia. Quindi bus navetta fino in stazione, treno, autobus e poi finalmente a casa.

Tra una cosa e l’atra siamo stati in ballo altre 26 ore filate.

Indubbiamente sono stanco, ma contento. Abbraccio la mia famiglia e mi butto finalmente a capofitto su una amatriciana.

CONCLUSIONI

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Siamo partiti carichi di curiosità per questa terra di cui poco sapevamo. Abbiamo incontrato qualche difficoltà di ambientamento nella sua caotica capitale. Ci siamo sentiti disorientati nella vastità dei suoi spazi. Ma ne siamo rimasti incantati.

La Mongolia è grande, veramente grande. E praticamente disabitata. Non sono poi così tanti i posti al mondo dove si può girare - in sicurezza assoluta - senza incontrare quasi mai nessuno.

Bisogno di isolamento? Forse sì. Bisogno di staccare la spina? Anche. Bisogno di sentirsi infinitamente piccoli in luoghi immensi? Pure. Bisogno di misurare le proprie emozioni, paure, disagi e incertezze? Soprattutto.

Ognuno ha le sue motivazioni, queste sono state le mie. Ed ho trovato in Mongolia lo scenario perfetto.

Detto questo, la Mongolia in moto è tecnicamente facile e quindi alla portata di chiunque. Mentalmente lo è un po’ meno, perché occorre mettere in conto la gestione emotiva in spazi così dilatati.

Chi non se la sente di viaggiare in autonomia e in pochi, può naturalmente optare per i tour organizzati, che tolgono ogni pensiero. Devi solo guidare, in fila indiana, seguendo gli altri, ma personalmente ritengo che sia un’esperienza un po’ a metà, troppo comoda, riduttiva e limitante, un peccato insomma, perché le emozioni individuali restano inevitabilmente compresse e inespresse.

Per chi invece è già un po’ abituato a muoversi fuori Europa con i propri mezzi, e facendo affidamento solo su se stesso e sui suoi compagni, la Mongolia, a mio parere, è una destinazione da prendere in considerazione. E poi, mica serve chissà quale grande esperienza!

Il massimo sarebbe arrivarci via terra, con un viaggio nel viaggio, ma per chi - come noi e come molti - ha tempi ristretti, il volo con noleggio è l’unica possibilità.

Ho notato però una anomalia. Quando si sente parlare di Mongolia, spesso viene spontaneo dire: “Wow… che figata… mitico… grande” e via dicendo.

Ma sono esclamazioni che muovono più dall’istinto che dalla consapevolezza. Sì, perché In rete si trovano rare e frammentarie informazioni su viaggi in Mongolia in autonomia (almeno io ne ho trovate pochissime). Sui social poi la gente solitamente posta qualche foto senza fornire informazioni utili.

In sostanza manca materiale pronto all’uso e aggiornato per offrire, a chi intende cimentarsi in questa impresa (che poi impresa non è), dati concreti e pratici per metabolizzare (prima) e organizzare (poi) un viaggio in Mongolia, senza rivolgersi all’intermediazione altrui.

Il mio intento era proprio quello di cercare di sopperire a questo buco informativo. Spero di esserci riuscito, nei limiti delle mie possibilità naturalmente e, nel bene e nel male, con il mio stile narrativo.

E, con il senno del poi, se avessi reperito in anticipo le informazioni di cui avevo bisogno (comprese le tracce GPX verificate), avrei affrontato la cosa con più consapevolezza e meno patemi d’animo… diciamo già preparato.

Mi piace pensare che qualcuno di voi sia ora un po’ più convinto che in Mongolia si può andare anche senza supporto logistico, perché così è in effetti.

La mia incondizionata e smisurata riconoscenza va naturalmente ad Alberto Cantoni, saggio, collaudato e premuroso compagno di viaggio, che mi ha sopportato e sostenuto anche in questa esperienza, come solo lui sa fare. Tutto quello che avete letto è stato vissuto e condiviso in due. Senza di lui tutto ciò non sarebbe stato possibile. Grazie davvero e di cuore.

Alla fine di questa storia, avrete capito che sono un motociclista normale, non un viaggiatore evoluto, uno come tanti insomma. Se ce l’ho fatta io, che ormai sto volgendo alla vecchiaia, può farcela chiunque.

E con questo, vi ringrazio per l’attenzione e vi auguro le migliori avventure!

Tutto questo racconto è scaricabile in formato PDF nel capitolo FILES al post n. 18.

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essemme
01-11-2023, 11:40
stavo proprio per scriverti chiedendoti se avevi fatto un pdf!

grazie Massimo!

stino
01-11-2023, 16:18
Grazie Massimo,bellissimo racconto

MacMax
01-11-2023, 17:40
Grazie anche da parte mia, ragazzi.
Gran bella storia, me la sono letta tutta man mano che la scrivevate.

Jimi
06-11-2023, 15:20
Grazie Massimo, mi hai fatto fare un bel viaggio tra la tastiera!!

Zorba
08-11-2023, 12:24
Grazie, Massimo, per questo bellissimo e coinvolgente racconto.
Sei stato uno splendido "compagno di viaggio", per così dire.

Peccato solo che non abbiate osato provare il vino Nobile al cioccolato o vaniglia! :)

dumbo54
19-11-2023, 22:59
Complimenti per il bellissimo report, che tra l'altro si legge tutto d'un fiato, licenze lessicali incluse...
Ho notato che alla fine la tua lodevole costanza nella ricerca di una pizza mongola commestibile à stata premiata !:D:D:D