Archimede
31-01-2015, 17:44
Ci sono leggi che governano la natura alle quali spesso non prestiamo attenzione fino a quando non siamo costretti a fare i conti con le stesse. Il periodico girare della terra intorno al sole è una di queste leggi.
Certo non diciamo che è consigliabile per il motociclista condizionare i propri viaggi ai copernicani eventi; sta di fatto che il sole negli occhi, sul far della sera o poco prima dell’imbrunire, costituisce un discreto fastidio anche per il motociclista provetto.
Tralasciando il caso di essere in presenza di soggetti fotofobici per i quali la cosa può diventare un vero e proprio supplizio, ci limiteremo a considerare il discreto fastidio che comporta la guida della motocicletta nell’andare incontro all’Astro.
Sia chiaro, i moderni occhiali da sole e le visiere scure offrono un discreto riparo. Ciascun motociclista sceglie il modello o la forma che più gli si confà, e ne riceve in cambio un prezioso aiuto quasi mai risolutivo. Esistono lenti speciali che cambiano colore al variare dell’intensità luminosa quasi fossero esseri viventi, e visiere scure automatiche che al solo tocco della mano discendono a riparare gli occhi.
Tutto avviene nel giro di pochi minuti. Fino ad un momento prima godevamo di una visibilità perfetta ed il nostro viaggio, da est a ovest procedeva senza nessun turbamento. La luce che alle nostre spalle illuminava perfettamente la via, dopo esserci passata sopra in modo più o meno perpendicolare, a seconda delle stagioni, comincia a cadere davanti a noi, come mossa da un improvviso moto di protagonismo.
A nulla serve accelerare: a volte siamo tentati di tenere alte velocità di crociera nella speranza di ritardare il palesarsi dell’accecante evento. Pur con medie ben oltre il ragionevole circolar per strada, al massimo potremmo ritardarlo di una manciata di secondi rispetto ad una condotta di guida regolare.
Se non si è in grado di raggiungere velocità prossime ai millesettecento chilometri in un’ora, il calare del sole d’innanzi a noi sarà, di fatto, inesorabile.
Un temporaneo rimedio, è quello di abbassar via via la testa facendosi ombra con il bordo del proprio casco. La posizione ci costringe un po’ a strabuzzare gli occhi ed inarcar la cervicale. Man mano che la fonte di luce si abbassa parimenti abbassiamo il capo fino a quando non ci accorgiamo di fissare più il tappo del serbatoio che la strada.
Può placare questo pruriginoso stato anche madre natura stessa; quasi a voler dimostrare chi, in fondo, detta le regole del gioco. Il palesarsi di una nube in posizione strategica già quasi ci solleva dal tormento. Le forme delle nubi sono quanto di più fantasioso ci sia in natura: alcuni vedono un cerbiatto, altri un elefante intento ad abbeverarsi, altri ancora un fachiro steso su dei chiodi.
Noi ci vediamo più semplicemente l’ombra. L’ombra data da quel lembo, perfettamente triangolato con il sole, che, fin li immobile, si dissolve in un alito di vento. E il gioco ricomincia.
Guardare per un attimo di sbieco può dare un sensibile sollievo. Metter la mano come sull’attenti, per poco fa distendere lo sguardo.
Finché d’un tratto, quasi senza avviso,
stanco d’illuminare la collina,
tramonta il sole ai bordi del Monviso
e pensa: “ci vediamo domattina!”.
Certo non diciamo che è consigliabile per il motociclista condizionare i propri viaggi ai copernicani eventi; sta di fatto che il sole negli occhi, sul far della sera o poco prima dell’imbrunire, costituisce un discreto fastidio anche per il motociclista provetto.
Tralasciando il caso di essere in presenza di soggetti fotofobici per i quali la cosa può diventare un vero e proprio supplizio, ci limiteremo a considerare il discreto fastidio che comporta la guida della motocicletta nell’andare incontro all’Astro.
Sia chiaro, i moderni occhiali da sole e le visiere scure offrono un discreto riparo. Ciascun motociclista sceglie il modello o la forma che più gli si confà, e ne riceve in cambio un prezioso aiuto quasi mai risolutivo. Esistono lenti speciali che cambiano colore al variare dell’intensità luminosa quasi fossero esseri viventi, e visiere scure automatiche che al solo tocco della mano discendono a riparare gli occhi.
Tutto avviene nel giro di pochi minuti. Fino ad un momento prima godevamo di una visibilità perfetta ed il nostro viaggio, da est a ovest procedeva senza nessun turbamento. La luce che alle nostre spalle illuminava perfettamente la via, dopo esserci passata sopra in modo più o meno perpendicolare, a seconda delle stagioni, comincia a cadere davanti a noi, come mossa da un improvviso moto di protagonismo.
A nulla serve accelerare: a volte siamo tentati di tenere alte velocità di crociera nella speranza di ritardare il palesarsi dell’accecante evento. Pur con medie ben oltre il ragionevole circolar per strada, al massimo potremmo ritardarlo di una manciata di secondi rispetto ad una condotta di guida regolare.
Se non si è in grado di raggiungere velocità prossime ai millesettecento chilometri in un’ora, il calare del sole d’innanzi a noi sarà, di fatto, inesorabile.
Un temporaneo rimedio, è quello di abbassar via via la testa facendosi ombra con il bordo del proprio casco. La posizione ci costringe un po’ a strabuzzare gli occhi ed inarcar la cervicale. Man mano che la fonte di luce si abbassa parimenti abbassiamo il capo fino a quando non ci accorgiamo di fissare più il tappo del serbatoio che la strada.
Può placare questo pruriginoso stato anche madre natura stessa; quasi a voler dimostrare chi, in fondo, detta le regole del gioco. Il palesarsi di una nube in posizione strategica già quasi ci solleva dal tormento. Le forme delle nubi sono quanto di più fantasioso ci sia in natura: alcuni vedono un cerbiatto, altri un elefante intento ad abbeverarsi, altri ancora un fachiro steso su dei chiodi.
Noi ci vediamo più semplicemente l’ombra. L’ombra data da quel lembo, perfettamente triangolato con il sole, che, fin li immobile, si dissolve in un alito di vento. E il gioco ricomincia.
Guardare per un attimo di sbieco può dare un sensibile sollievo. Metter la mano come sull’attenti, per poco fa distendere lo sguardo.
Finché d’un tratto, quasi senza avviso,
stanco d’illuminare la collina,
tramonta il sole ai bordi del Monviso
e pensa: “ci vediamo domattina!”.